Docufiction, Recensione

CESARE DEVE MORIRE

NazioneItalia
Anno Produzione2012
Durata76'
Tratto dada Giulio Cesare di William Shakespeare
Fotografia

TRAMA

Storia di un processo creativo: il regista Fabio Cavalli, nel carcere di Rebibbia, mette in scena insieme ai detenuti il “Giulio Cesare” di William Shakespeare.

RECENSIONI

 

Non c’è aria, nel carcere delle definizioni, nelle gabbie dei generi. Cesare deve morire è indagine documentarista impudentemente artefatta, cinema del reale astratto all’epica brechtiana, gioco scespiriano di scatole cinesi di finzioni, risurrezione del cinema civile. Non c’è un momento che paia non recitato, nel grigio, nel ferro, nell’oblio di questo Rebibbia: non gli stralci di spettacolo, non i frammenti di prove che - al montaggio - ricostruiscono nelle mura del carcere il Giulio Cesare di Shakespeare, non l’irrompere tra i reclusi dei conflitti reali, declamati, ricomposti, stilizzati. L’attore sociale (criminale, giudicato, punito) si sovrappone all’attore teatrale, al personaggio finzionale, poi alla recita del proprio sé: l’idea è che il gesto teatrale e cinematografico sia ventriloquo del reale, la rivendicazione, fiera e intransigente, è di una funzione catartica per l’arte. Ode all’antinaturalismo e abbraccio alla realtà concreta, Cesare deve morire riflette costantemente sulla natura dello spettacolo, affascina nella magnetica resa del testo scespiriano, aliena per mettere in circolo questioni etiche sullo sguardo e la compassione, sul giudizio e la morale. Un dispositivo pirandelliano (del Pirandello teatrale e di quello anticinematografico) che ravviva il cadavere del cinema dei Taviani, preservandone le costanti, il respiro paradossale della dialettica che lo anima (dal neorealismo a Mejerchol’d), che struttura ogni inquadratura (contesa tra verismo e astrazione pittorica, abitata da stupefacenti amatori che recitano le prigioni del proprio sé, dei propri personaggi), la necessità dinamica dell’illusione utopica (quella fuga: quel pannello: quel paesaggio che s’accende di colori) e la verità radicata nel passato remoto, nel folclore (Shakespeare è un interruttore di consapevolezza, l’uso del dialetto una riappropriazione scardinante), il simbolismo politico antipatriarcale, il didascalismo congenito, la capacità di precipitare sul presente in modo problematico. C’è aria, qui: non esente da ridondanze, è cinema libero, ben prima che rigoroso. Girato in digitale. Orso d’oro a Berlino 2012.

È sorprendente ritrovare i settantenni Taviani in un’opera, a suo modo, così iconoclasta, scomoda, inconsueta anche per i canoni del loro cinema: sono tornati I Sovversivi. Ci sono vari livelli di rappresentazione che finiscono per annullare e al contempo rileggere l’esistente: c’è il testo del Giulio Cesare che attecchisce nella realtà del carcere, nel momento in cui racconta personaggi che, in nome della libertà, commettono un delitto e finiscono “prigionieri” di quell’atto; c’è la finzione degli attori-non attori (non tutti, almeno) che interpretano se stessi durante le prove e il testo sul palcoscenico (uniche scene a colori, mostrate in apertura e chiusura del film, con diverse valenze, una volta entrati in intimità con queste anime recluse); c’è il fatto che sono veri carcerati e, nei loro cuori, le prove diventano tanto reali quanto lo sono per lo spettatore (vedi la scena della tenda) prima ancora che salgano sul palco. Un Vanya sulla 42a Strada (o Riccardo III di Al Pacino) che filma la realtà nella finzione di un atto di finzione, catartico come l’ultima battuta dell’attore che, una volta finita la rappresentazione, rinchiuso nella sua cella, loda l’Arte che lo libera dalla prigione. L’opera dei Taviani non è tanto rivoluzionaria nel gioco realtà-rappresentazione o in quello di attori non professionisti che rappresentano se stessi per rimandi metatestuali intellettualistici, ma nel rinnegare quest’ultimo aspetto per esaltare la dimensione umana di persone non grate/non viste chiuse in un cassetto dalla comunità. Conoscerle, vederle riappropriarsi di una dimensione “sociale” del (con)vivere, è il valore aggiunto di un film che, fra i pochi, agisce nel Reale. E la “giovinezza” (come categoria dello spirito) degli anziani Taviani, per quanto abbiano sempre composto favole politiche, rielaborato testi altrui e amato Brecht, è indubbia: tornano agli anni Sessanta o al loro San Michele aveva un Gallo, quando inquadravano le mura della cella di Manieri e disquisivano d’Utopia, di caparbietà umana nel cercare la libertà.