TRAMA
Harry Block, celebre scrittore e “il peggior uomo al mondo”, visto attraverso scene di vita e stralci di romanzi.
RECENSIONI
Lo scrittore Block (il nome è parlante quasi come quello assegnato al protagonista di “Ombre e nebbia”, Kleinman) non riesce a terminare il nuovo romanzo; in compenso, la sua vita privata va a rotoli. Occasione del “riscatto” dovrebbe essere una cerimonia di premiazione, ma le cose andranno altrimenti. Il film potrebbe sembrare una variazione su Il posto delle fragole e, in superficie, lo è, ma il senso profondo è completamente diverso, ribaltato, per la precisione. Nel film di Bergman il protagonista ha raggiunto altissimi risultati professionali rinunciando ai sentimenti; Harry non solo è “in bancarotta spirituale”, ma non riesce a controllare la propria opera. Block ammette di servirsi dei libri per regolare i conti con il proprio passato (genitori, ex mogli e ex amanti, sorella e cognato “professionalmente ebrei”), e le sue opere si dedicano al completamento del lavoro, “sistemando” l’autore, sottoponendolo – alla lettera – al vaglio di una feroce (auto)critica, sostituendo di fatto l’evanescente figura dello psicanalista (che, da parte sua, legge i racconti di Harry in chiave freudiana). Se all’inizio le piste (meta)narrative sono distinte, a partire dalla scena del luna-park i piani si fondono, i livelli del discorso si moltiplicano e si connotano di ambiguità mai risolvibili fino in fondo (impossibile distinguere flashback, allucinazioni, trascrizioni di testi), finché diviene chiaro che il film è non solo la descrizione della nascita del libro che Harry inizia a scrivere nel finale, ma la versione per immagini dello stesso volume, che vede al centro un uomo pessimo nella vita, ottimo nella scrittura.
Interpretato da molti come una sorta di Allen 8 ½ (ma costoro dovrebbero ri-vedere Stardust Memories), Harry a pezzi è piuttosto, come suggerisce il titolo originale, un tentativo di smontare il superpersonaggio-fisso WA, ritraendolo da ogni possibile punto di vista: solo in questa enciclopedia del cinema (e della scrittura) dell’autore possono incontrarsi la comicità grezza e “bassa” degli esordi e la malinconia un po’ snob degli Ottanta, la psicanalisi e il musical, la ricerca delle origini e l’angoscia per il futuro, gli attori feticcio (Julie Kavner, Caroline Aaron, la divina Judy Davis, una rediviva Mariel Hemingway) e i divi che mettono in gioco le proprie maschere (Demi Moore come “fondamentalista cristiana ebrea”, Robin Williams che va fuori fuoco, Billy Crystal in versione satanica). Il significato di questa riscrittura maniacale a più strati, priva di trama e conclusione (in senso canonico)? Resistendo alla tentazione di rispondere “nessuno” (l’arte per l’arte, al limite), non è impossibile individuarne uno nei titoli di testa e di coda del film, nel corso dei quali Annie Ross canta Twisted. Il brano descrive una situazione conflittuale fra analista e paziente: “My analyst told me/ that I was right out of my head/ but I said, dear doctor/ I think that it’s you instead/ […] ‘cause instead of one head/ huh-huh, I got two/ and you know, two heads are better than one”. Una realtà in cui regnano ordine e armonia (il découpage impeccabile al posto del jump cut), generata da un mondo immerso nel disordine e nelle guerre (fra religioni, intellettuali, amanti, parenti, vivi e morti): la descrizione più appassionata e, insieme, più disillusa che sia mai stata concepita a proposito dell’arte.
Autoanalisi, autobiografia, decostruzione: il "Negromante che distilla l'oro dall'infelicità altrui" si frantuma, va all'inferno e fugge nel sogno. Accusato di mettere in piazza il proprio privato, Woody Allen filma il processo intero, si mette sul banco degli imputati col nome di Harry Block (blockato nella creatività), s’accusa (psicanalisi), si condanna (farmaci), si difende (c’è chi mette l’arte nella vita e chi nel lavoro). La messinscena dei racconti dello scrittore protagonista (non tutti…a fuoco) è romanzata quanto la ricerca intima proustiana dell’autore: evocando i fantasmi del passato (reali o fittizi) e i demoni del presente, cita se stesso e chiama invano a raccolta le proprie muse, dalla Mariel Hemingway di Manhattan (che ora lo disprezza), a Bergman (la Morte de Il Settimo Sigillo, Il Posto delle Fragole) e Fellini (la Donna è dio, un’ossessione). In overdose di se stesso, fuori fuoco (letteralmente, che trovata!), in bancarotta spirituale, al contempo indulgente e spietato, confessa il disordine della propria sfera affettiva, risale con Freud al trauma primigenio (papà…) ma non risparmia le sante madri che si rinnegano come puttane e hanno la presunzione di cambiarlo. Il montaggio è a pezzi, in cortocircuito (vedi l’incipit), i ricordi si confondono con gli incontri fantasticati fra alter-ego (Block/Richard Benjamin), s’alza il Canto di Natale dickensiano e l’ebreo che si odia, il cittadino del mondo che crede solo in Scienza e Fi(si)ca, l’uomo più cattivo della Storia dopo Hitler, si comprende in quattro termini (nichilismo-cinismo-sarcasmo-orgasmo), rinuncia alla “serena” vita di coppia comunemente intesa, ai rimorsi, ai sensi di colpa, accetta la solitudine e il Sé dissacratorio, immaturo, fedifrago e amante dei “casi clinici” per non amare (perché non si ama) e per guadare l’impossibilità di essere normale nella fantasia (desiderio=sesso). Se ci si aspetta che il mondo s’adegui alla stortura che diventiamo, non bastano 85 ruoli (tanti sono nel film) a definire esattamente il nostro Io: meglio accettarsi e accettare la Vita per quello che è, accontentandosi dell’applauso dei propri personaggi e familiarizzando, se è il caso, con gli orgiastici gironi di Maciste all'Inferno e con il Diavolo. Può capitare, ad un certo punto, di pensare che le parole più belle non siano “Ti amo”, bensì “E’ benigno”. Aspettando Godot.