Drammatico, Recensione, Sala, Thriller

BABYGIRL

Titolo OriginaleBabygirl
NazioneU.S.A., Olanda
Anno Produzione2024
Durata115'
Sceneggiatura
Fotografia

TRAMA

Un’amministratrice delegata di alto livello mette a rischio la sua carriera e la sua famiglia quando inizia una torrida relazione con uno stagista molto più giovane.

RECENSIONI

È stato il film scandalo - relativamente, comunque a corto raggio, e se ancora possono esisterne di tali - alla Mostra di Venezia edizione 81 dove Nicole Kidman venne insignita della Coppa Volpi, s’intuiva col favore della presidente Isabelle Huppert che immaginavamo sorridere sotto i baffi per il détour della diva in prossimità di zone a lei familiari (lo sguardo, il nostro, è obliquo, verso Elle, o La pianista). Poi Babygirl si è baloccato con una campagna marketing sorniona, tra eloquenti bicchieri di latte e il profilo della protagonista di spalle, in castigo contro il muro, incastrata fra pareti rosa confetto. La viralità è stata un facile oggetto di conquista, la stagione dei premi invece ha escluso senz’appello un film, il terzo dell’olandese Halina Reijn, dalla superficie non così immediatamente leggibile né declamata, dalla trasparenza non priva di increspature, e nient’affatto disinteressato a una ricerca di multidimensionalità.
Babygirl non è, innanzitutto, una love story, e poco ha a che fare col trend recente (The Idea of You, Lonely Planet) “donna matura + ribaldo ventenne/partner assai più giovane” - dalla stessa Kidman guadato, cfr. A Family Affair su Netflix. Con Harris Dickinson/Samuel, stagista fresco di arruolamento nell’azienda diretta da Kidman/Romy, non scocca una scintilla amorosa, il ragazzo è semmai per la CEO un ponte da percorrere, sino in fondo (…) e con eyes wide shut, per risarcire se stessa, per rompere un altro soffitto di cristallo, interiore, ma inevitabilmente subìto per conto del pensiero comune.

Romy, donna di potere, perfetto esempio di una narrazione femminile empowering, è infatti un’immagine aspirazionale da cui le coetanee e soprattutto le giovani eredi traggono linfa, coraggio, speranza. Non può sbagliare, specialmente per loro, specialmente ai loro occhi. Non c’è soltanto moralismo, nello sguardo - punitivo e ancora vuoto di chiaroscuri e di esperienza della complessità - della segretaria e pupilla Sophie Wilde/Esme, che inchioda la boss alla sua colpa, essersi abbassata - nella relazione con un sottoposto - a impugnare le dinamiche di forza da cui sono solitamente gli uomini di potere a trarre profitto. Nella reprimenda della fanciulla c’è un’arma a doppio taglio, la richiesta di perfezione a 360° da parte di colei che deve farsi emblema e totem, manifesto e slogan femminista (“ce la possiamo fare”). Una gabbia nuova, questa, non dissolubile da quella “vecchia”, quella di sempre, preesistente: sociale, giudicante, introiettata all’unanimità, che nella fantasia femminile - e nel consensuale metterla in atto - vede una perversione, e che dunque costringe il desiderio alle catene del proibito. Ed ecco che allora all’interno della dimensione sessuale Romy agisce un contraddittorio rispetto al proprio ruolo istituzionale e simbolico, reagendo per impulso alla propria maschera di dominio. Asservirsi all’altro, all’uomo che intercetta quel grumo non dicibile, non esprimibile, non provabile, è un movimento liberatorio perché possibilità di antitesi da una veste pubblica, corretta, favorevole socialmente e culturalmente al proprio genere.
La risoluzione e dunque il compimento del piacere nell’alveo coniugale, con il ritorno al marito tutto sommato prodigo e anch’egli beneficiario dell’intervento di un deus ex machina, è poi un happy end che in ultimo definisce la cornice di Babygirl - fino ad allora basculante fra thriller erotico, dramma psicologico e satira sociale - come una veste di carta velina. Rivelando il film come, semplicemente, un tardivo e catartico coming of age (di relazione con sé e con l’altro) che con gioia si scrolla di dosso anche la catalogazione di genere perché non ne ha bisogno, proprio come Romy con il parere altrui. Ed è in questo atto di divertissement la qualità aggiuntiva di Babygirl: lo sberleffo, quel bel fastidio già presente nel lavoro precedente di Reijn Bodies Bodies Bodies con il suo molto rumore (cos’è: horror? sci-fi? Kammerspiel?) per… il nulla cosmico. Per la burla di sapere infine, senza troppe storie, chi siamo.