
Lungo una decina di capitoli, Arnaud Desplechin spiega cos’è il cinema. Naturalmente, come sempre, non lo fa né può farlo se non a partire dall’autobiografia: ecco dunque un labirintico gioco di specchi multilivello, per cui alcuni dei capitoli (altri sono più “documentari”: interviste a spettatori qualunque, ricostruzioni storiche sulle origini del cinema etc.) vedono protagonista in età infantile-adolescenziale quello Stephen Dedalus suo alter-ego in vari suoi film, abitualmente interpretato da Mathieu Amalric che qui si vede due secondi e viene additato da altri personaggi come “il regista”.
Spectateurs in realtà si prolunga anche in altre direzioni, di calcolata varietà in modo da fuggire un’eventuale coerenza talmente plateale da spaventare a morte Desplechin. Il suo cinema, in effetti, è tutto nella fuga da una verità semplicissima, lampante a chiunque guardi una mezzora a caso dei suoi film senza alcun bisogno di essere psicanalisti: la logorrea straripante in tutte le sue opere non è che l’esorcismo della paura del vuoto, che è paura dell’origine. Origine che è origine sessuale prima di tutto (da cui il rapporto tremendo e decisivo di Stephen con la madre).
Nella ricognizione scolastica del contesto storico in cui il cinema nacque, ci sono un po’ tutti: gli impressionisti, Seurat e quant’altri. Curiosamente, manca L’origine du monde di Courbet. E manca perché è specificamente da quel quadro che il cinema di Desplechin fugge via da una vita. Cinema che è, letteralmente, angoscia del vuoto e “fiumi di parole” per coprirlo. Angoscia dell’origine: il cinema “entra in circolo” solo quando, da bambino, il protagonista, nel corso di primi incontri con la sala cinematografica che coincidono con i primi incontri con l’altro sesso, prova un bisogno insopprimibile di andare in cabina di proiezione a vedere da dove parte il fascio di luce. Angoscia di un’origine sessualizzata: angoscia hitchcockiana dunque (scolastica anch’essa, la scena primaria avviene nel tinello di casa, quando davanti a Io ti salverò il bambino prende coscienza di colpo del vuoto all’origine e del tutto-pieno erotizzato con cui lo si esorcizza). Angoscia talmente onnipresente che persino davanti a Shoah di Lanzmann Desplechin non riesce a non provare disagio, e non è difficile capire perché: per lui, l’angoscia è angoscia per un vuoto originario sessualizzato, dunque davanti al vuoto storico lanzmanniano è chiaro che ci si senta fuori posto.
Si prolunga anche in altre direzioni, si diceva, Spectateurs. Ingaggiando il gioco di specchi tra l’Io e i propri simulacri, ci si ritrova sempre davanti la stessa evidenza, la stessa banale plateale evidenza (quella accennata più sopra, sull’angoscia del vuoto), che si tratta dunque di fuggire: il mondo, dove l’io non c’è, è precisamente là dove l’io fugge e si rifugia per rifuggire la propria evidenza. Il tema della discriminazione razziale, su cui il film si chiude, è precisamente questo: una provvisoria, ultimamente à la page ancora di salvezza su cui puntare la cinepresa per non puntarla su un enigma troppo banale per non sciogliersi come neve al sole quando lo si approccia frontalmente, e che quindi conviene rifuggire.