
TRAMA
Rita è un avvocato al servizio di un grande studio, più interessato a scagionare i criminali che a consegnarli alla giustizia. Un giorno riceve un’offerta del tutto inaspettata: aiutare un potente boss del cartello messicano della droga a ritirarsi dai suoi loschi affari e sparire per sempre.L’uomo ha in mente di attuare il progetto su cui lavora da anni: diventare la donna che ha sempre sognato di essere.Insoddisfatta del suo lavoro, Rita decide di accettare l’incarico, ignara del fatto che questa scelta cambierà per sempre la vita di molti.
RECENSIONI
The End is the Beginning is the End (Una suggestione)
Le tre donne di Emilia Pérez, a cui si aggiungono reminiscenze di esistenze passate (il nome, il volto, l'ecosistema del boss Juan “Manitas” Del Monte; la frustrante routine di un'avvocata chiamata a difendere abbienti agenti di una violenza patriarcale) e ipotesi di futuro, sono un inno all'inevitabile fluidità della vita. Audiard lavora con i corpi e le loro spoglie, con quello di cui questi corpi sono costretti a gravarsi e di ciò che scelgono invece deliberatamente di lasciarsi alle spalle, di regalare al passato, di relegare all'inconscio.
I corpi del suo cinema incarnano sì il germe di ogni possibilità, ma appaiono altrettanto segnati e marchiati dal mutamento; sono corpi non addomesticabili, spesso feriti, che lottano in cerca di assestamento.
Sono figure di frontiera (la transizione di genere in questo suo ultimo lavoro - Premio della Giuria al 77º Festival di Cannes, 13 nomination per gli Oscar - o le gambe perdute di Marion Cotillard in Un sapore di ruggine e ossa) colte nel loro varcare una soglia, nel loro imparare a (ri)conoscersi. Costrette a farlo, bramose di farlo.
Transfrontaliere lo sono anche le tante lingue babeliche, che mescolano biografie fittizie e attoriali: dal multiforme spagnolo delle protagoniste di Emilia Pérez al còrso di adozione del giovane franco-magrebino Malik ne Il Profeta, che si fa strumento di sopravvivenza e riscatto capace di eludere le coercizioni carcerarie. E anche tramite ciò che è fisico e tangibile, tramite l'appropriarsi di un proprio odore, di quello in cui gli altri ci identificano, passa il riconoscimento di sé: se (il fu) Manitas sogna che il profondo della sua anima «odori di miele», il figlio si ritoverà irretito nel turbine di una madeleine olfattiva di fronte all'abbraccio di questa zia misteriosa, che odora «di motore, di Coca Light con limone, ghiaccio e sudore» come il papà che non c'è più. Il riscatto richiede il supporto di chi è altro da sé, estraneo alle proprie inquietudini: anche se spesso motivata da un impeto autoriferito, che si batte in primis per la sopravvivenza individuale, la rivoluzione portata sullo schermo da Audiard è segnata da uno spirito antimonadistico.
Un cinema di solitudini ma mai solitario, in cui nessuno sembra davvero capace di fare a meno dell'altro, sia questo sodale, alleato, antagonista: dalla giovane segretaria di Sulle mie labbra, le cui risorse germinano dall'handicap e dall'emerginazione, alla coppia allievo-insegnante di Tutti i battiti del mio cuore, formata da un pianista impossibile e una giovane asiatica che non parla la sua lingua, fino alla nascita di La Lucecita, l'associazione frutto dell'incontro tra l'ex boss del narcotraffico e un'avvocata in fuga da una giustizia priva di morale.
Audiard lascia che i suoi personaggi si interroghino su colpe ataviche, fantasmatiche presenze recalcitranti all'idea di un definitivo distacco. Dalla madre scomparsa di Thomas in Tutti i battiti del mio cuore al padre alcolizzato de I fratelli Sisters, è tutto un incessante fare i conti con l'ingrombro dell'altro, sia questo qualcuno che ha vissuto di carne, ruggine e ossa, sia questo un sistema di valori e relazioni che li ha costretti a diventare quel che non sono mai stati, quel che non avrebbero voluto essere, quel che - lo giurano, lo gridano, lo cantano - non saranno mai più.
Il cinema di Audiard guarda ad un'umanità sempre dilaniata tra debolezze congenite e desiderio di rigenerazione: dai tentennamenti dell'indolente Thomas, le cui mani si muovono più sui tasti dell'inquietudine che su quelli del pianoforte, alla tetra voce maschile che si affaccia sulle labbra di Emilia, a suggerire incubi che traboccano di gelosia, che sussurranno sete di possesso, le deformazioni strutturali sembrano negare un'ipotesi di piena redenzione. La redenzione assoluta da ciò che eravamo sembra essere al di là dei limiti umani: esistere è portarsi appresso echi e incrostazioni di ciò che siamo sempre stati, di ciò che ci hanno costretto ad essere.
Un musical sui generis, un canto spesso più vicino a una spoken word (e sussurri, liriche, canti di guerra, nenie infantili); un corpo di ballo che è il corpo della gente di strada, di chi per la violenza sistemica ha perso una parte di sé se non tutto, di infermiere e medici in grado di regalare quella riassegnazione di genere negata dalla nascita; una tragedia in musica - Emilia Pérez è un film originariamente concepito e strutturato come opera in quattro atti - che sceglie di non mettere al centro melodie di immediata impronta.
In questo noir musicale, che ipertrofizza l'amore e la morte, le donne sono figure che non appartengono al piano della letteratura, del mito o dello spettacolo (né streghe né Cyrani, più affini per animo e portato morale al luttuoso ritratto d'artista dell'Annette di Carax) ma si muovono nell'ambito del reale, per quanto straordinario: persone normali costrette tuttavia a scendere a patti con l'arte della retorica processuale, ad abbracciare la mistificazione, a spingere il piede sulla macchina del fumo nel rapportarsi al proprio pubblico, ai propri affetti, alle mutilate famiglie messicane in attesa di un corpo su cui piangere, o per cui smettere di piangere.
Alla sua prima opera in lingua spagnola, Audiard ci restituisce un personaggio transgender (finalmente) carico di spessore, che celebra le ragioni della personalità - per quanto ambigue queste possano essere (Subiendo al cielo / ayendo al abismo / Flotando en el ritmo / Llegando al éxtasis / Tocando el fondo) - su quelle di una più livellante personalizzazione.
Emilia Peréz (un titolo, un nome, un microcosmo) è possibile anche grazie e attraverso la sua transizione, attraverso la sostanzializzazione di una nuova forma per la propria identità; la realizzazione di un'identità che deve passare anche per - in questo caso specifico - la palingenesi della carne.
Una mise en abyme per Karla Sofía Gascón, prima attrice transgender ad essere premiata a Cannes - assieme a Zoe Saldana e Serena Gomez - per la miglior intepretazione femminile, che propone ad Audiard di calarsi nei panni di Juan “Manitas” Del Monte, nella sua raffigurazione prima della transizione.
«Libera come il suo odore», è «il desiderio e la ricerca del tutto», è alito vitale, è un coraggioso canto di redenzione e di speranza, oltre i confini di genere.

In Messico, dagli anni ‘60 ad oggi, sono più di 100 mila le persone scomparse. Un quarto di queste sono donne. Spesso immigrate e minorenni (Sergio González Rodríguez in Ossa nel deserto, reportage attento e rigoroso, prova a mappare questo fenomeno intricato e complesso). Le vittime vengono rapite per i più svariati motivi: traffico d’organi, estorsione, arruolamento coatto dentro le fila della criminalità organizzata. Il Messico è uno dei paesi con il più alto tasso di criminalità e corruzione e il dramma dei desaparecidos costituisce una tragedia che la politica e le istituzioni faticano a risolvere. È in questo spazio socio-politico, oscuro e cavernoso, che Jacques Audiard ambienta Emilia Pérez. Manitas Del Monte è un narcos, uno dei più temibili e feroci, un uomo rispettato e potente. Ma Manitas è anche una donna, o meglio, vorrebbe diventarlo, cambiare sesso e identità e adeguare il suo sentire al suo corpo. Per farlo si serve dell’aiuto di una avvocata di origini dominicane (Rita Castro) che lavora, sfruttata e sottopagata, per uno studio iniquo e disonesto. Audiard, regista contemporaneo tra i più imprendibili e inclassificabili, gioca con i generi plasmandoli, fondendoli, posizionandoli all’interno di una narrazione e una grammatica visuale votata all’eccentricità, senza mai perdere il controllo e la misura. Il musical, il noir, l’action, il melodramma, la natura queer, il sottotesto sociale sono tessere di un puzzle che si compone sotto gli occhi dello spettatore, un pezzo alla volta, e di cui si serve Audiard per meglio diffondere (e difendere) la parabola umana di Emilia Pérez. Le donne sono le protagoniste. Il motore che aziona cortocircuiti improvvisi e innesca il cambiamento. La transizione non è soltanto di genere, ma esistenziale, politica e collettiva. Emilia, Rita, Jessi (l’ex moglie di Manitas) sono individui in cerca di riscatto, di un avvenire luminoso, di una seconda possibilità. Quello di Audiard è cinema libero, ibrido, tumultuoso; lontano da schemi e facili incasellamenti che non teme di affastellare temi, contenuti, visioni e sguardi. Il Messico visto da Audiard non è colonialista né oleografico né antilatino, ma culturalmente ricco, denso, palpitante di umori e tensioni. La trasformazione personale di Emilia coincide con la sua evoluzione umana e spirituale. Il perimetro (maschile) criminale si contrappone a quello accudente (femminile). Emilia Pérez sembra avere chiuso con il narcotraffico, eppure gode degli agi e dei proventi della pregressa attività criminale. I sensi di colpa la inseguono, fonda una onlus per aiutare le famiglie a fare luce sui parenti scomparsi: per la comunità divine una santa laica, una martire della giusta causa. E tuttavia resta una donna piena di contraddizioni e di ombre che non esitano a riaffiorare nei momenti più instabili e controversi: la sorte dei figli, la cui madre, prossima al matrimonio, vorrebbe portare con sé allontanandoli inconsapevolmente da lei. Jacques Audiard segue, filma, spia queste donne con uno sguardo antropologico ed entomologico, ne scruta gli animi, i segreti, le ferite. Le fascia di luci al neon (rosse, blu, verdi) ponendole sempre al centro dello spazio filmico, mai marginalmente o lateralmente. Lascia che a parlare siano i loro corpi sulla scena, dentro lo spazio musical che è voce interiore, passaggio liminale e limite della coscienza. Le (ra)accoglie e le spinge fino al punto di non ritorno. Emilia Pérez è padre e madre, donna e uomo, feroce e compassionevole. È in questo dualismo, in questa asimmetria non binary che Audiard ci parla di liberazione, anarchia, piacere e desiderio. Non a caso sceglie il momento nodale della transizione per presentarla (nulla sappiamo della vita passata di Emilia: la relazione tra il mondo machista da cui proviene e il desiderio femmineo di riconciliazione con sé). Conta soltanto il presente; quel «Bingo!» sussurrato con orgoglio che abbate i confini.
Su Emilia Pérez, ormai da mesi, infuocano le polemiche. Le accuse ricorrenti sono il razzismo, la transfobia, l’antilatinismo (che comunque si riallaccia al razzismo). Del cinema, della sua grammatica e del suo linguaggio si parla poco e niente. Il discorso resta principalmente ancorato sui binari contenutistici e culturali. Il film tuttavia non esprime, neppure indirettamente, sentimenti di avversione odio o pregiudizio nei confronti delle persone transgender; né ha la pretesa di raccontare, quasi fosse un documentario, la condizione delle donne transessuali in Messico. È vieppiù il racconto dentro il quale gravitano e vengono interpolati vari generi e umori differenti. Audiard viene accusato di spettacolarizzare la transizione, privandola del suo aspetto emotivo e psicologico. Il punto è che il suo cinema è prima di tutto fisico ed epidermico, la strada scelta è sempre quella dell’azione e del dinamismo. Il perimetro non è quello realista o naturalista, ed è una scelta precisa che, in questo caso, serve a scardinare stereotipi e ad evitare la canonizzazione della transizione. Per Emilia Pérez, infatti, è più facile da donna che da uomo, da dentro un altro corpo, cambiare pelle, sguardo e direzione. Post intervento la troviamo in ospedale, ricoperta di bende (quasi come in un film horror), e un attimo dopo seduta ai piedi del letto che scruta il nuovo giorno, investita dalla luce calda della rinascita (la luce di un nuovo orizzonte, di una nuova alba). Emilia è (ormai) una donna, con tutte le sue complessità, asperità, incongruenze. Non esiterà, infatti, a dimostrarsi poco compassionevole o “buona” in determinate circostanze. A dimostrazione del fatto che questo ruolo, non monodirezionale, non cerca esclusivamente l’afflato e l’empatia, ma l’autenticità di un personaggio frontale e fisicamente impetuoso, senza partiti presi. E Karla Sofía Gascón offre un’interpretazione sfaccettata e complessa. E il fatto che sia la prima donna trans a ricevere così tanti attestati di stima (e premi), e dunque visibilità, dice tutto il contrario della transfobia di cui il film è accusato immotivatamente, per ragioni (tristemente) ideologiche. Anche l’obiezione razzista, si fatica ad accettarla. Jacques Audiard non realizza un film antropologico sui messicani come popolo e le loro tradizioni; non ne tradisce lo spirito, dimostrando di conoscere poco la geografia, l’etnografia, la spiritualità di quei luoghi. Il contesto petroso e delinquenziale è una cornice. Non c’è speculazione, né tantomeno la necessità gratuita di pontificare sulla realtà criminale autoctona. Quel tipo di potere e corruzione, con altri nomi e altri accenti, è lo stesso in tutto il mondo. Il narcotraffico è un archetipo. Un corpo cinematografico fatto di deserti, di armi che sparano e squarciano il velo della notte, di sogni infranti e destini segnati. Audiard realizza un film pop, musicale, colorato, dove il noir si mescola al melodramma, l’irriverenza all’impegno. È cinema, spettacolo, ludico intrattenimento.
