TRAMA
Luminita, giovane clandestina che vive ai margini di una baraccopoli, ha un piano per uscire dalla sua situazione. Nel portarlo a termine si imbatte in Antonio, anziano malato e misterioso. Lo scontro tra i due, inevitabile e duro, porterà però a delle conseguenze del tutto inattese (dal catalogo del Tff).
RECENSIONI
Essere soli è allenarsi a morire, scriveva Céline. E della solitudine come anticamera della morte racconta Sette opere di misericordia, denudando pieghe e piaghe di due corpi emarginati e abbandonati, atlanti di dolore fattisi carne, cicatrici inosservate in uno scenario metropolitano d'ostilità e indifferenza. L'incontro/scontro tra Luminita, una clandestina moldava, e Antonio, un anziano dai giorni contati, è acceso dalla fame di sopravvivenza della prima, ma si ricompone, silenzioso, in una tregua obbligata, dove il bisogno e il riconoscimento d'umanità altrui seda gradualmente la disperazione di entrambi. La legge dell'homo homini lupus si scongela alla luce di una ritrovata empatia, e dalla ferocia di chi non ha più nulla da perdere si approda - in sette, allegorici passi di sporcizia catartica - a una compassione fragile e sofferta. È un'idea eminentemente cristiana: la ferita come feritoia, canale di mutua sofferenza, ponte tramite cui un cuore può comunicare con un altro cuore (misericordia, alla lettera, è 'avere cuore per le miserie altrui'). Ma le parole vengono meno, dissolvendosi in tutta la loro impotenza, sopraffatte dall'assoluta predominanza di gesti e silenzi. Lei è straniera, lui invalido nelle corde vocali: la loro sete di vita, tanto umana da farsi bestiale, può chetarsi solo nel nudo confronto di sguardi e corpi. E non c'è fumisteria metafisica, né astrazione predicatoria, perché la pietas eletta a motore del racconto non dimentica mai la carne in cui è radicata, in una declinazione materica, immanente e laica dei precetti evangelici dai quali è scandita (sono didascalie da interpretare obliquamente: con eretica ironia, l'immagine ne sovverte la sottintesa direzione morale). La misericordia è inscindibile dalla fisicità della miseria, ché la redenzione a cui i due personaggi tendono, pur dagli innegabili connotati spirituali, non può mai prescindere dai loro stessi corpi, sui quali lo sguardo dei De Serio indugia a lungo, a costo di estetizzarli attraverso prolungate mappature (tassi)dermiche.
Diligente partitura d'opacità e trasparenza, di tormento e salvezza, Sette opere di misericordia prende programmatica forma dal chiaroscuro morale ed estetico che lo imbriglia, scaturendo dal buio catacombale dell'incipit, scolorando gradualmente di desolazione e bruciando, infine, di troppa luce. Non è caravaggesco solo nel titolo, ma anche nella figurazione carnale, violenta e fragrante, magnificando in Cinemascope la miseria di corpi dimenticati e in decadenza (sarà difficile dimenticare l'aspra performance di Roberto Herlitzka). Eppure, malgrado alcune ingenuità da opera prima (la gelida ossatura aprioristica e linguistica, tra soundscape stordenti, solennità fuori-registro e indelicati sguardi in macchina), Sette opere di misericordia può vantare uno sguardo quantomai ostinato e personale, sideralmente lontano dai tic e dalle maniere del cinema italiano d'oggi, capace com'è di affrontare, pur tangenzialmente, l'incandescente tema dell'immigrazione senza attutirlo con stereotipi culturali e facili manicheismi, ma concentrandosi, similmente a quanto tentato da Io sono Li, sull'umanità dura e cruda di individui condannati all'emarginazione. L'ermetica matassa tramica, poi, è crivellata di ellissi e buchi narrativi, come a pretendere, anche in chi guarda, una fede totalizzante nei personaggi messi in scena. Se la scabr(os)a rappresentazione è governata solo dalla loro prossemica, la fenomenologia di queste due solitudini inselvatichite esige un'empatia spettatoriale faticosa perché assoluta, priva di mediazioni e stampelle drammaturgiche. Così, oltre a rifarsi al neorealismo rumeno dell'ultimo decennio (Cristi Puiu su tutti, citato nei ringraziamenti), ostentando, anche nello stile, la bipolarità produttiva dell'opera (frutto di una coproduzione italo-romena), la regia d'austera sottrazione non può evitare di richiamare, negli insistiti pedinamenti come nella ruvidezza antispettacolare, certo magistero dardenniano (Luminita, in fondo, non è che un'altra Lorna). Ma al confronto di questi, i De Serio essiccano ulteriormente il midollo drammatico e paralizzano la composizione, levigandola appena con l'attento ventaglio cromatico e luministico di Piero Basso: non più pianisequenza frementi, ma prigioni di quadri immoti, rappresi nella fotografia livida e velati da sparse modulazioni di focale. Torino, qui, è uno sfocato crocicchio di fantasmi, scia di miserie indistinte. Il fuoco s'inverte, dal contesto al soggetto, isolando con nitidezza la storia di due invisibili per scinderli da quanto è solitamente emblema dell'ipervisibile (la città, i suoi rituali collettivi e quotidiani), ad esso riconsegnandoli, esaurito il conte morale, in una quieta risacca dell'anima.
