TRAMA
Dopo la morte di papa Gregorio XVII per un attacco di cuore, il collegio cardinalizio si riunisce in conclave per eleggere il nuovo papa, sotto la guida del cardinale e decano Thomas Lawrence.
RECENSIONI
Nella vulgata comune, così si afferma: il libro è sempre migliore del film. Sappiamo che le cose non stanno, da un punto di vista epistemologico, in questo modo. I due linguaggi, contamina(n)ti, ma dissimili, ci pongono di fronte a sfide differenti: il cinema satura, in un certo senso, ciò che di cui la fantasia personale si è nutrita attraverso le pagine scritte. Per questo l’opera cinematografica ci può sembrare “peggiore”; si tratta però solo di una visione altra rispetto a quella che abbiamo saputo forgiare, mentre leggevamo. E poi, nel ricalco, che naturalmente è ben altro, dell’autore/regista – non del lettore – c’è chi si pone di fronte al dubbio con l’attitudine di Montaigne, c’è chi lo fa con quella di Shakespeare. Perché di dubbio si parla, se si vuole parlare di fede (la fede in Conclave è intesa in accezione religiosa, ma può essere anche un atteggiamento fideistico nei confronti delle istituzioni, per esempio). Da una parte c’è Roman Polanski che, come il Bardo, che gli è familiare per passate indagini filmiche, mira a rappresentare (a rendere presenti cose passate, facendole risuonare col presente); dall’altra c’è chi, come Edward Berger, sceglie di analizzare (e, purtroppo, anche di spiegare, talvolta, in un afflato modernista che rasenta a più riprese il didascalico). Del resto, Montaigne scrive per indagare sé stesso attraverso l’indagine della condizione umana (una forma di auto-analisi impregnata di umanesimo scettico o di scetticismo umanista), Shakespeare per sondare l’umanità altrui, chiamandosi fuori dall’equazione, non per pavidità, ma proprio per una diversa prospettiva di sguardo: un fantasma che invita Amleto a dubitare delle proprie certezze, e Lear, e Macbeth, ché la vita è “a tale told by an idiot, full of sound and fury, signifying nothing”.
“Que sçay-je?”, “che ne so io?”, scrive Michel de Montaigne. E una analoga contrizione gnoseologica la ritroviamo nel Decano Thomas Lawrence, che nel romanzo si chiama Jacopo Lomeli, prelato al centro di una trama di macchinazioni che disconosce, uomo di fede senza la fede, anzi, con una fede che però ha difficoltà a esprimere attraverso la preghiera, attività avvertita come estranea, esteriore, magari persino esornativa rispetto a un sentire più profondo che è quello della tartaruga che non si adatta al destino che Dio ha previsto per lei. Un bel problema, per uno che potrebbe diventare Papa (suo malgrado?).
Esercita, volente o nolente, la facoltà del dubbio, il Decano Lawrence. Forse, poiché la penna originaria è la stessa, quella di Robert Harris, rimanda, per assonanza e per opposizione, in due lavori che assumono l’incedere di una spy-story, variamente declinata (con generi quindi che si sporcano e si contaminano l’uno l’altro, secondo un approccio più post-strutturalista che, in senso proprio, todoroviano), al Georges Picquart di L’ufficiale e la spia, come pure, ma più per riferimento di stile, al Gary Oldman di Tinker Tailor Soldier Spy. A tal proposito, Tomas Alfredson figura tra i produttori esecutivi.
Georges Picquart, mai completamente vittima, mai completamente carnefice, è un uomo che non agisce in nome di un’ideologia, ma, si potrebbe dire, mosso da un imperativo categorico che lo spinge a fare ciò che è giusto perché è giusto. I faccia a faccia tra i due soldati, lui e Dreyfus – gli ufficiali e le spie, sempre più diversi nello spirito e nel fisico, eppure simili, ancora (ma per quanto tempo ancora?) uomini – appaiono come una sorta di rispecchiamento distorto che ha, come linea mediana, proprio la capacità di fissarsi negli occhi senza temere l’orrore, un sentimento che invece, pochi decenni più tardi, spingerà molti a distogliere lo sguardo dalla barbarie dell’Olocausto. Nella tragedia euripidea di Roman Polanski, dove il sacrificato riesce a scampare al proprio ferale destino, il deus ex machina è una timida giustizia che fatica ad affermarsi e che pare ormai appannaggio dello slancio etico di pochi. La compassione sembra sempre più distante, un miraggio per lo stesso Picquart che solo in un’atmosfera desolante, decadente, trova lo spiraglio consolatorio della musica, forse anche di un briciolo d’amore.
Un sigillo di ceralacca che si sgretola per terra assomiglia a minuscole gocce di sangue cadute a un reo o a una vittima, oppure a entrambi, anche se dovessero essere la stessa persona. Perché Thomas Lawrence ha, appunto, qualcosa che ricorda l’ufficiale polanskiano – è un uomo dentro un ruolo che gli sta stretto, un ambizioso che ha rinunciato per un po’ a/ha rinnegato la propria ambizione – ma non è fatto della stessa sostanza, né possono esserlo i contesti e i tempi nei quali i due personaggi si muovono. Se di là si potevano ancora assaporare sprazzi di un tempo pre(i)storico, si poteva, insomma, stare nella Storia da innocenti (più o meno), nel lavoro di Berger il tempo tragico del Novecento è trascorso da un pezzo e la colpa irrompe nel bunker Vaticano. Iconograficamente e dal punto di vista fotografico, il regista costruisce infatti una plumbea simmetria nosocomiale, all’interno della quale il simbolo assume l’incomodo ruolo di sostanza de-sostanziata, di sacralità profanizzata (o il contrario), rispondente a un principio che più che deistico – il Dio-orologiaio che crea e poi lascia che sia – appare in sintonia con la trattazione di Simone Weill. In analogia con Agostino e la sua grazia preveniente, Weill postula l’adiacenza, a conti fatti la coincidenza, tra attenzione, nella sua forma primigenia e pura, e preghiera: «L’attenzione consiste nel sospendere il proprio pensiero, nel lasciarlo disponibile, vuoto e permeabile all’oggetto, nel mantenere in se stessi, in prossimità del pensiero ma a un livello inferiore, e senza che vi sia contatto, le diverse conoscenze acquisite che si è costretti a utilizzare.» (Simone Weill, Attesa di Dio, Milano, Adelphi, 2024)
Thomas Lawrence pare proprio applicare un principio contiguo e la sua caratteristica di décentrement è, all’interno della metafora/simbolo, in prima istanza, di natura prossemica: il Cardinale è spesso obliquo, sfuggente, alla ricerca di una vocazione smarrita – quando ripete di avere assunto un ruolo più manageriale che spirituale – e di qualche brandello di verità che non lo/li faccia mal figurare nel mondo esterno/estraneo. Man mano che il suo coraggio nel voler conoscere progredisce e il pensiero si sposta dall’ossessivo sé all’altro – al tutto – il personaggio acquisisce frontalità, acquisisce cioè, la capacità di guardare le cose faccia a faccia (il confronto risoluto con Tremblay, per dirne una).
Un esterno, un fuori – la Storia – che non può che contaminare la segretezza del conclave, da etimo, chiuso, chiusissimo, sottochiave. Quindi erompe, prima con una tetra avvisaglia sonora, poi in concreto, e palesa le macerie di un’istituzione fatta da uomini che si fissano l’ombelico: non è certo un caso se quel pulviscolo non sarà spazzato via dalle vesti dei porporati e sarà anzi la leva dell’arringa (si tratta di una sorta di arringa ideologica che fa seguito a un’altra arringa altrettanto insipida, ma di tenore opposto – progressisti versus reazionari – non di un’omelia) decisiva per il papato. Uno dei due – l’altro è il Cardinale Tedesco di Sergio Castellitto – è un Cardinale cosiddetto in pectore, ovvero non ancora ufficializzato, per ragioni che sovente concernono l’opportunità politica. Ci si potrebbe domandare se sia prassi che una nomina taciuta – segreta nel cuore – dal Santo Padre possa accedere alle votazioni del Conclave. La regola, ai sensi del Codice di Diritto Canonico, Can. 351 § 3, è questa: «Colui che è promosso alla dignità cardinalizia, se il Romano Pontefice ne ha annunciato la creazione, riservandosi però il nome in pectore, durante questo tempo non è tenuto ad alcun dovere e non gode di alcun diritto proprio dei Cardinali; tuttavia dopo che il suo nome è stato reso pubblico dal Romano Pontefice, è tenuto a tali doveri e fruisce di tali diritti; ma gode del diritto di precedenza dal giorno della riserva in pectore.»
Ci interessa tuttavia fino a un certo punto sindacare sullo ius eligendi cardinalizio: l’arrivo di quel Cardinale in pectore, uno abituato a stare tra gli ultimi, figura piuttosto come una apparizione cristologica, come una nascita.
Pertanto, se il finale, perentorio e non rivelabile (Conclave guarda al target alla maniera de Il codice da Vinci – nulla di male, intendiamoci, ma c’è differenza rispetto a un cinema più ricercato – e lo spoiler può dunque irritare), risulta, per certi versi, perturbante, in realtà è con maggiore evidenza il raggiungimento di una consapevolezza nuova, ovvero della necessità di avviare un processo di modernizzazione culturale – una fusione di istanze e di sensibilità, già chiaro nelle rivendicazioni del personaggio di Isabella Rossellini – unica strada, secondo Harris e secondo Berger, che se ne fa diligente portavoce, per espungere la Chiesa di Roma dal pantano della progressiva, inarrestabile (e polverosa) irrilevanza: Mother&Father, Son and the Holy Spirit.
Più interessante, almeno dal punto di vista cinematografico, il pre-finale, nello sguardo – finalmente – ambiguo e ormai compiutamente frontale del Decano Ralph Fiennes: è soddisfazione o frustrazione della vanità, quella che prova il Cardinale quasi eletto? Mi ha ricordato la caduta agli inferi di Riccardo nel Riccardo III di Richard Loncrane. Certo, Richard/Ian McKellen, come dramma storico prescrive, perisce e sprofonda, eppure l’ultimo sguardo è accompagnato dal sorriso beffardo di chi sa di aver stravolto lo status quo, di avere, osservandola da una prospettiva luciferina, vinto. Trovando una dimensione più ampia, Lawrence è divenuto un asceta migliore o soltanto un po’ più umano, qualcuno meno incline ad abiurare alla propria “immaginazione riempitrice di vuoti”, di conseguenza meno propenso ad abrenuntiare se ipsum?
Chissà: il compito è stato eseguito con mestiere, ma senza guizzi, e rimane la sensazione che Berger sia un regista più dichiarativo (dal mio punto di vista lo era stato anche in Niente di nuovo sul fronte occidentale) che capace di generare germogli a partire dal lancio di qualche sparuto seme.
La pianta è già lì, basta solo potarla e renderla più presentabile. E (se) Dio è morto, viva il re.