TRAMA
RECENSIONI
Affermatosi internazionalmente nel 2005 col finto documentario I primi sulla Luna, Aleksey Fedorchenko torna a questo genere impregnandolo di quello che, negli anni (e soprattutto con Angeli della rivoluzione, 2014), si è rivelato uno degli aspetti più interessanti (e meno programmatici) del suo cinema: l’intima convinzione che l’utopia, realizzandosi, non si rovesci in distopia come vuole il cliché, ma sfoci nell’anarchia.
In New Berlin - prima europea al Laceno d'Oro 2024 -, di finti documentari ce ne sono due, di un’ora ciascuno. Uno è il filmino che nei nostri anni avrebbe realizzato in Colombia Viktor, il discendente di una certa Bertha Schaufler, da lì partita insieme ad altre 500 vergini nel 1956 verso la colonia antartica di New Berlin, delirante palingenesi societaria tardo-nazista sulle cui tracce si mettono Viktor e la figlia. L’altro è il finto “found footage” girato nel 1965 nella colonia antartica in questione, ovvero dentro l’intrico di cubicoli della nave usata per arrivarci. Orfana degli animali (naufragati) che dovevano arrivare da Amburgo, gli abitanti della nuova Berlino, con le loro vistose chiazze di melanina da riflesso luminoso polare, non ci hanno messo molto a sostituire il Führer con dei procioni elevati ad animali sacri, garanti dell’unità famigliare e quindi sociale.
Il film (che, c’è da scommetterci, deve più di un po’ al Princess Raccoon di Seijun Suzuki del 2005) è ancora più bizzarro di quanto potrebbe sembrare da queste righe. Ideale trait d’union (complice il deserto tutt’intorno) tra l’eugenetica nazista e l’Internazionale Situazionista, gli abitanti di New Berlin non sembrano avere molte altre occupazioni a parte stirare, abbronzarsi, dipingere, fotografarsi, recitare poesie e mettere in scena stilizzatissimi spettacolini teatrali d’avanguardia. La loro stessa vita, in effetti, assomiglia in ogni momento a un ermetico teatro d’avanguardia, in cui persino lo scompiglio portato dai bambini che scorrazzano continuamente nelle labirintiche strutture della nave sembra un effetto perseguito coscientemente dalla vertigine autopoietica, euforicamente totalitaria, del trasformare la vita in arte.
Avendone frequentato cinematograficamente il concetto da decenni (e non di rado mescolato con un’eccentrica reinvenzione dell’esotismo etnico, prima che in New Berlin in casi come Silent Souls, 2006, o ancor più Celestial Wives of the Meadow Mari, 2012), Fedorchenko sa benissimo che, già ai tempi di Tommaso Moro, “utopia” vuol dire prima di tutto “delimitazione spaziale dentro la quale i limiti del mondo sembrano essere superati”. È attorno a questa spazialità che si sviluppa la mise en scène di Fedorchenko. Tanto il carattere informe della tranche de vie catturata in diretta dalla telecamerina digitale della prima parte colombiana, quanto le spigolose inquadrature della seconda, i cui margini quasi sempre coincidono con quelli dei cubi e dei corridoi dei claustrofobici ambienti “in coperta” (così, appunto, trasfigurati in quinta teatrale), sono accomunate dell’abbondare di un pattern grafico ricorrente: l’intersecarsi giocoso, ricco di variazioni sempre nuove e inventive, tra la frontalità e la lateralità; tra un fuoricampo esorcizzato identificando lo sguardo che capta ciò che sta in campo, e tra un fuoricampo che non si lascia esorcizzare in questo modo.
Così, non c’è totalitarismo spaziale (la definizione stessa di “utopia”) che non si apra sull’indefinito nel momento stesso in cui sigilla la propria chiusura. La Storia potrà anche essere finita (lo afferma la stessa comunità utopica antartica: “la fine della Storia è il nostro inizio”), ma l’utopia non è finita. Non è neanche scomparsa: deflagrata nei vari totalitarismi, si è contratta fino a diventare una dimensione parallela di pura negatività. Dimensione parallela cui ci conducono i tanti, estemporanei buchi neri che anche nel nostro presente privo di forma (quello del blando turismo della prima metà colombiana di New Berlin) possono sempre spalancarsi all’improvviso.