TRAMA
Nello squallido ventre criminale di Miami, un esperto sicario si lancia alla ricerca spietata del suo prossimo obiettivo. Ripreso interamente con lenti termiche, l’uomo si muove in un mondo perverso in cui regnano incontrastate violenza e pazzia.
RECENSIONI
La filmografia di Harmony Korine, l’insieme dei suoi più grandi lavori, è un bestiario umano per immagini. Una raccolta di icone pagane. Di ibridi uomo-animale. Divinità maligne o benigne di un cinema che, a dispetto dell’oscillazione costante tra il suo tono provocatorio e quello giocoso, porta con sé una gravità mitologica. Si fa presto a dire Gummo, l’uomo-coniglio, spirito di Xenia, metropoli devastata nella sua urbanistica e nella sua architettura morale che si aggira come un fantasma per le strade della città, con quel volto dai tratti ferini e le orecchie rosa di feltro. Poi, esplicito nel titolo, c’è Julien Donkey-Boy, capro espiatorio di una famiglia, una società intera, con la sua dentatura equina e le posture selvagge che ne denunciano la vita animale, lo relegano a una condizione di emarginazione tra i suoi (dis)simili. Sono ibridi, sirene o centauri, anche i protagonisti di Mister Lonely, imitatori a cavallo tra la propria identità e quella impersonata, in conflitto tra due nature: quella terrena, la propria, e quella mediatico-divina. Michael Jackson, Marilyn Monroe, Charlie Chaplin. Donne e uomini alati (quanti sono i movimenti ascensionali e discendenti del film?), angeli e demoni del Novecento. D’altronde, l’uomo-animale è da sempre il sacro, il divino, sin dalle due dimensioni dei geroglifici, fino alle evoluzioni 3d dei supereroi del Marvel Universe. È quindi un dio – tutto americano – quell’uomo-animale che è l’Alien (a proposito…) di James Franco in Spring Breakers, il gangster selvaggio dal rettile tatuato sul braccio, il predatore dai denti d’argento, corruttore di anime incerte che vorrebbero fondersi e trovare casa nell’immagine idealizzata della cultura popolare statunitense. Lo mette in scena da anni, Korine, il post-umano: organico, latente, specchio dello spirito del tempo in cui affogano i suoi personaggi. Come potevano, pertanto, questo cinema della deformità e questo regista che ha sempre cercato un altrove primitivo nei volti che immortalava (quanti, tra i cineasti del nostro tempo, sanno trovare più di lui la magia in un tratto fisico?) non lasciarsi affascinare per primo dalla plasticità esasperata a cui le immagini che produciamo sono condotte dall’intelligenza artificiale? Poche tecnologie come il video-to-video, tecnica che permette di modellare l’estetica di un’inquadratura con poche parole inserite come prompt, e il text-to-image, con cui creare immagini su richiesta, hanno esposto la fragilità, la permeabilità dei nostri corpi digitali. La capacità delle nuove frontiere della tecnica di esplorare l’idea di una realtà fluida, in cui quegli angeli e quei demoni che per il Refn – regista a cui quest’ultimo film di Korine è estremamente debitore – di Copenhagen Cowboy governano il mondo possono manifestarsi non più con semplici accenni sui corpi reali, ma come vere e proprie presenze digitali, sovrascritture dei corpi virtuali, corpi in continuo dialogo tra dentro e fuori, realtà e immagine. Il regista, che ha sempre cercato di mettere in discussione le rappresentazioni formali tradizionali dei corpi e delle identità, grazie al suo collettivo EDGLRD, che ha massivamente integrato l’AI nella stilizzazione del film, può così continuare un’indagine fisiognomica che persegue ormai da anni, consapevole che un volto oggi (ce lo ha detto presentandosi a Venezia con una maschera demoniaca), in tempi di deepfake e filtri di Instagram, è per sua stessa bit-natura eternamente deformabile, potenzialmente sempre qualcosa d’altro: una rivelazione. È una termografia dell’anima quella della fotografia a infrarossi di Arnaud Potier, alla ricerca dei demoni urbani, di un assassino in lotta con un’entità maligna nella città spettrale del digitale, dove Travis Scott ha una lingua di serpente e il Male e il Bene emergono dalle profondità del mondo per posarsi su pelli binarie, un paese in cui perdersi, dove nessuno ha reali connotati fisici, nomi, identità, razza, ma ci sono solo segni grafici al posto dei volti, passamontagna che anestetizzano ogni pretesa identitaria, opposizioni dualistiche ma dai contorni sfumati. È tutto qui Aggro Dr1ft: nell’ipnotica dissoluzione tra realtà e artificio, in corpi-burattini nelle mani degli spiriti, nello scarto immaginifico, nel sistema a base due in cui confondere anatomie, scopi, forme, motivazioni: senza alcuna morale finale, senza trama da commentare. Corruzione totale. C’è stata molta, impietosa Venezia il giorno della prima. Francamente: che noia.