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TRAMA
Da ragazzo Toño fu cacciato di casa dalla sua famiglia e fu costretto così ad abbandonare il piccolo paese della Bolivia meridionale dove era nato e cresciuto. Dopo molti anni decide di intraprendere un lungo viaggio per ricongiungersi con le sue origini, ma, una volta arrivato, scopre che la situazione della sua famiglia è radicalmente cambiata: il padre adottivo soffre di una malattia che gli impedisce di parlare, mentre Ana, con la quale è cresciuto e che fu il suo primo amore, è ora madre di un bambino di nove anni che alleva da sola. (Dal catalogo del Tff)
RECENSIONI
Si apre su uno squarcio della memoria collettiva boliviana, Los viejos. È il flashback crepitante di un'esecuzione pubblica, brandello di found footage rubato alla Storia: muoiono i padri, uccisi dai fuochi della dittatura di Banzer, e restano i figli, nati orfani e predisposti all'esilio. Mario è uno di loro, il suo ritorno a casa un nostos amaro ed elegiaco: ad attenderlo il padre adottivo malato, ormai in punto di morte, gli amici d'un tempo, pochi e sconfitti, e la cugina amata in gioventù, oggetto di rimpianti e di what if del cuore. Dai (pochi) dialoghi non si cava altro, perchè sulla crosta descrittiva s'agitano appena racconti sospesi e introversioni sottili, vene intraviste di un'immagine quantomai cangiante e scistosa. Ogni pianosequenza è un quieto formicolìo di riflessi mobili, di distorsioni eteree, di slavine aeree. Lì, l'inconsistenza del narrato può fondersi al magma limpido della composizione, e il quadro fluttua, come patina di cristallo, tra smottamenti e alluvioni di luce. A partire dallo straordinario incipit, ogni scena è un poliedro fluido ed estatico, senza più bisogno di parole: mossa da superfici e piante in lento ma percettibile digradare, le lascia libere di scivolare e compenetrarsi l'un l'altra, gonfie di tempi diversi in lirica coesistenza, strati indistinguibili di una sola memoria aperta, resistente, viva. Proprio lì si nasconde la magnetica importanza di un film a suo modo esemplare, ennesima e candida riprova di un tercero cinema finalmente reincarnatosi, a quarant'anni dai proclami fallimentari di Glauber Rocha, in una cinesensibilità inedita e rivoluzionaria, condivisa da svariati autori ai margini, provenienti, in massima parte, dal cosiddetto terzo mondo. In Los viejos se ne ritrovano i temi (la memoria rivivificata hic et nunc, la Storia e i suoi conti aperti fermentati nell'oblio, l'incurabile melancholia della condizione post-uma(na), l'allucinato richiamo all'empatia residua, i liquidi slittamenti di presente e passato, tra strati di realtà e stati della mente) e i riconoscibili stilemi da prontuario contemplative (long take sopra tutti), per quanto la riflessione si fermi qui a mezz'aria, restando - intima e minimale, vuota e lucente - ad altezza esercizio, sulla stessa lunghezza d'onda di certo Larraìn, per dire, ma in termini opposti (visivamente eclatante, concettualmente flebile).
Terzo cinema, dunque. Fa strano pensare che Los viejos ne sia solo un sintomo, e nemmeno tra i maggiori. Nessuno snobismo radical-festivaliero, nessun hype da gazzettieri avant. Si parla, piuttosto, d'effettivo superamento del postmodernismo, delle sue metastasi turgide di finzioni griffate e di cinismo à la page, delle involuzioni ludiche e disperate da fine Impero, da riconfigurare in modalità impensate, curative, intimamente sovversive. Non solo una ritrovata libertà di sguardo e no, non proprio un primitivismo illuminato, o una naiveté depurante, ma uno scarto - tangibile e scioccante - di pensiero (fatto cinema). A costo di sconfinare drasticamente nell'off topic: chi si è accorto che Century of Birthing di Lav Diaz, filippino, omaggia (ed esorcizza) il Tunnel di William Gass, tra i maestri di David Foster Wallace, per sgretolarlo a picconate, ed eiaculare il cielo? Oppure: come si spiega quell'enigma a nome Weerasethakul, thailandese, autore di un cinema anfibio e imprendibile, che ha metabolizzato l'avanguardia erudita ed estrema di suprematisti della pellicola come Hollis Frampton e Michael Snow (che ammaliarono e influenzarono anche il primissimo Greenaway, per restare in terra postmoderna), ma riplasmando tale (e tanto) materialismo metrico-celluloidale sotto le spoglie di un cinema animista e panteista, rimarginato e benefico, dove i cerebralismi strutturalisti si dissolvono, letteramente, in un nuovo nulla? Allora, forse, sondare il cinema contemporaneo non significa (solo) rovistare tra le ultime carcasse farcite di 3d e motion capture, gli imbastardimenti cannibali del Tarantinismo, la post-post-Vague o l'Eastwood terminale. Morale semplice quanto scontata: dove muore qualcosa, può rinascere altrove. O anche: gli atlanti di cinema chiedono a gran voce di venir ridisegnati con urgenza nuova, adesso. E sia chiaro, Boulocq, alla sua seconda opera (un pittorico homecoming che riecheggia Lo Specchio tarkovskiano), non è nemmeno paragonabile a pesi massimi come Diaz o Weerasethakul – benché di quest'ultimo l'espirare conclusivo della pellicola (che da ogni chiusura fugge) riecheggi quello stesso idillio paratestuale che già scindeva Blissfully Yours in due emistichi di silente grazia narrativa, così come - sia resa giustizia al press-book del festival - le deformazioni lenticolari suonano come consapevoli riarrangiamenti subequatoriali delle anamorfosi à la Sokurov -, ma rimane comunque un perfetto compendio di tale tendenza, allorché sì, questa recensione, confessando la pretestuosità del proprio costrutto, non si sa se affetta da facili entusiasmi o solo ubriaca d'arretrati inevasi, vuole ridursi a un'ipotesi, un consiglio, un invito. È il momento, forse, di dismettere gli esotismi interessati e gli eurocentrismi logori. Guardate altrove.
