TRAMA
Calais, Nord della Francia. Migranti che aspettano di riuscire ad attraversare la Manica, conquistare la traversata, raggiungere l’Inghilterra. Nel frattempo si tengono lontano dalla polizia. Attendono, si lavano, fumano, si nascondono, si scaldano mentre raccontano della fatica, dei soprusi e delle loro identità travolte. (dal catalogo del TFF 2011).
RECENSIONI
Frammenti non integrati in Qu’ils reposent en révolte (Des figures de guerres) compongono (appunto) Les éclats, atto terzo di un’ideale percorso cominciato con L’impossible - Pages arrachées, pagine di un cinema che fa della realtà materia d’espressione radicale, canto di uomini ai margini della società. Frammenti che, nella propria natura non lineare, esuli dal regno della narrazione canonica, si sottraggono alla diacronia: al passato e alle premesse prediligono il presente, il qui, l’ora, i suoi volti. Ed è la presenza una delle caratteristiche del cinema di George, il suo esserci nel mondo prima che il raccontarlo, il suo relazionarsi all’individuo prima che il farne oggetto di sguardo. C’è un’etica dell’immagine rara, in questa «cartografia della violenza inflitta alle persone migranti», come se fossero gli stessi clandestini a riconoscere in quella macchina da presa (e in quell’uomo) la cassa di risonanza adeguata alla propria - finora socialmente muta - voce. Ostinatamente, il cinema di George preclude l’ingresso al pregiudizio, vuoi neocolonialista, vuoi retoricamente empatico, mirando al cuore delle cose, lavorando sull’immagine per negarla al senso precostituito, dilatando o accelerando le durate, ricorrendo a ralenti e al freeze-frame, alternando interviste frontali a passaggi descrittivi, giocando sulla prossemica tra camera e corpi, scolpendo tutto in b/n, manipolando (solo) visivamente la realtà, per renderla alla sua essenza. Qui, in Les éclats, si percepiscono slittamenti nel trattamento filmico del reale, rispetto alle opere precedenti. C’è un’asciuttezza maggiore nella ricerca di un differente registro lirico: quello con il quale i vivi residui della società giungono allo statuto di soggetto, giungendo alla forma poetica dell’individualità: qui, al posto dei versi fiammeggianti di poeti marginali c’è il blues di Diabolo, c’è quella dichiarazione posta al termine del buio di coda che è semplicemente un’appropriazione, c’è un (sotto)titolo che indica una prima persona singolare: la mia bocca, la mia rivolta, il mio nome. George fa del cinema la lingua di una realtà considerata altra. E il suo è un gesto cinematografico radicale, che restituisce ciò che la società sottrae: la soggettività. Non unicamente guardando la realtà, ma sperimentando sull’immagine: è questa la sua militanza. Perché per George l’importante (e probabilmente l’impossible) è vedere per la prima volta. E oggi, al tempo della fine della lirica come forma poetica, il suo è il rigore di una lirica nuova, fieramente differente.
Premio per il Migliore Documentario al Torino Film Festival 2011.