TRAMA
Londra, 1891. Il Professor Moriarty sta architettando un piano diabolico del quale è impossibile dire altro senza “spoilerare” troppo. Holmes e Watson non se ne stanno con le mani in mano.
RECENSIONI
Ritchie non racconta storie. Ma solo perché non gli riesce. Tutto l'innesco della vicenda, che segue l'efficace prologo dinamitardo, è di legnosità esemplare, lacunoso e anche poco comprensibile. Il suo modus narrandi è girare sequenze lunghe e inutilmente verbose, sostanzialmente indecifrabili, per poi dare un senso 'a posteriori', tardivo, con una linea di dialogo piombata dall'oscurità dello script. Si veda la sequenza della cartomante: non si riesce a seguirla, a collocarla diegeticamente fino a che, a segmento concluso, Sherlock non tira fuori un fantomatico fratello del quale tutti, sceneggiatrici comprese, sembravano ignorare l'esistenza. Se però non ci si perde d'animo, e si persevera, il film ripaga la pazienza con una colonna visiva che sarà sì rivista, anacronistica, obsoleta ma che l''ex marito di Madonna' gestisce e manipola alla grandissima, conferendo alla regia una sorta di autoindulgente autosufficienza. Tecnicamente, non c'è niente che non si sia già apprezzato nel primo Sherlock: ralenties, flashback/flashforward tarati e montaggio para-liminale è, più o meno, tutto quello che c'è nell'armeria del Nostro, ma ogni ingranaggio è oliato (e poi lucidato) alla perfezione.
Tutta la seconda parte di questo Gioco di ombre può essere letta come un affastellarsi di sequenze “a effetto”, riproposizioni magnificate e anabolizzate di quelle viste nel primo capitolo, in massima parte imperniate sulla cinematografizzazione delle induzioni/deduzioni/preveggenze del Detective ben amalgamate nel tessuto di metronomiche sequenze d’azione (il treno, il bosco). Fino all’ottima trovata finale, quando le proiezioni rallentate di Sherlock si sovrappongo a quelle dell’acerrimo nemico Moriarty, in un’autoironica (e autoreferenziale) sequenza - peraltro molto attesa, a mo’ di final boss - che vira al comico lo stilema principe dei due film. Non solo. Portandolo alle estreme conseguenze e culminando in una immobilità che (finge di) annulla(re) l’altra cifra connotativa dei due film, l’Azione pura, della quale, sul più bello, si nega la ripro-visione (in) diretta. In realtà, a ripensarla serenamente, anche “la storia” vera e propria del complotto diabolico per anticipare la prima guerra mondiale non sarebbe neanche malaccio. Fa simpatia, e crea fumosi legami con l’attualità mentre accarezza tentazioni allostoriche. Ma, conviene ribadirlo per offrire un servizio chiaro ed esaustivo, è storia scritta con scarsa scaltrezza, poca visione d’insieme, raccontata per epigrafi e recitata come meglio può essere recitata una sceneggiatura che, come il regista e come il film, vive di momenti (leggi: dialoghi, sketch, gag) più che di compattezza e continuità.
Accontentarsi, godere.
Ad un certo punto del film, Holmes mostra all’amato Watson (nel secondo capitolo gli umori omosessuali non sono più latenti ma dichiarati) un suo studio dove, seguendo gli intrighi di Moriarty, i “fil rouge” sono fitti ed ingarbugliati: i nuovi sceneggiatori (i coniugi Mulroney), ingaggiati al posto del trio Michael Robert Johnson-Anthony Peckham-Simon Kimberg, questa matassa non la sanno districare, nonostante gli eventi raccontati, in sé, non siano così sorprendenti (errore: per tutto il film si decanta un genio del male che non si palesa). Più che gioco di ombre, un’esposizione “a vanvera”, episodi scollegati che la regia “drogata” di velocità di Guy Ritchie rende ancor più disomogenea, impedendo anche ai pochi passaggi dove i personaggi tirano fuori i sentimenti (Holmes che soffre per l’amata morta, Watson che soffre per Holmes…) di avere qualche peso. Non resta che bearsi del lavoro di scenografi, costumisti e tecnici degli effetti visivi nel dare vita ad un mondo antico prossimo alla rivoluzione tecnologica, fra pizzi e sporcizia di carbone. A differenza del film precedente, i dialoghi non divertono più e le invenzioni latitano (notevole, però, quella di Moriarty che fa svuotare il ristorante di “figuranti”). Per fortuna degli autori, brilla la luce da “ultima avventura” del racconto di Doyle cui ci si è ispirati, soprattutto nel lungo brano con la partita a scacchi fra i due “geni”, in cui ha davvero senso il vezzo di Ritchie di fornire anticipazioni velocizzate del futuro (sono i calcoli probabilistici, le induzioni e deduzioni di Holmes), facendo collimare quelle del suo eroe con quelle di Moriarty e sorprendendo la platea con una mossa inattesa, previo sguardo “d’amore” verso Watson. Altra carta vincente (Noomi Rapace è poco sfruttata e non si nota): Stephen Fry e il suo dandyismo impagabile, anche quando recita nudo di fronte ad un’imbarazzata Kelly Reilly.