Drammatico

THE SLUT

Titolo OriginaleThe Slut
NazioneIsraele/Germania
Anno Produzione2011
Durata87'
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio

TRAMA

Tamar è una ragazza madre ormai non più tanto giovane. Nonostante i suoi due figli vive ancora una vita particolarmente libertina che la porta ad essere accetta dalla comunità di cui fa parte in modo “particolare”.

RECENSIONI


Un bellissimo cavallo corre lungo una strada di campagna ripreso al ralenti e accompagnato da una dolce canzone, quando all’improvviso viene investito e ucciso da un furgone. Queste immagini spiazzanti, allusive del trauma che ci sarà di lì a poco, per i protagonisti come per lo spettatore, sono i primi fotogrammi di The Slut, scritto, diretto e interpretato dalla israeliana Hagar Ben Asher. L’autrice (classe ‘79) presenta al Torino Film Festival il suo secondo lavoro, quattro anni dopo l’esordio alla regia, nonché film di laurea, Pathways, grazie al quale ha ottenuto il premio il premio della Cinefondation a Cannes.
Hagar Ben Asher gira il film con molto coraggio, si mette a nudo di fronte alla macchina da presa raccontando una storia che parla di violenza e di depressione, ma soprattutto di corpi, in gran parte femminili, al cospetto del giudizio altrui, dell’altrui sguardo. Attraverso la mostrazione senza filtri della propria persona e della propria nudità, la regista si chiede - e ci chiede - cosa significhi, per una donna, possedere davvero il proprio corpo, dove sia la soglia che delimita la libertà (sessuale, relazionale) dal suo opposto. La speculazione discorsiva vede nella narrazione della vicenda della protagonista il suo vettore principale: ella viene presentata come una donna emancipata, libera dalle costrizioni sociali, una ragazza madre particolarmente libertina, ma che ad occhi esterni risulta una prostituta, un semplice corpo da possedere. La svolta più importante arriva quando la protagonista conosce un uomo del quale sembra potersi innamorare e che appare come l’anello mancante alla propria catena familiare, il perfetto padre dei suoi figli. La donna di conseguenza decide di abbandonare i suoi “amanti” abituali e intraprendere una vita monogama. Questo passo suona come un tentativo di emancipazione dal ruolo in cui sembrava incasellata, da una libertà sessuale solamente apparente, dietro la quale si celava l’impossibilità di uscire dal ruolo coatto di puttana. Questo percorso si interrompe nel momento in cui la sua posizione all’interno del villaggio inizia ad essere compromessa, la Tamar-donna non serve a nulla se il suo corpo non è più disponibile e dunque diventa una personaggio invisibile, una non presenza in un mondo che la rifiuta. Tamar dunque non riesce a reggere il peso dei questa invisibilità e interrompe il suo percorso liberatorio per regredire, nuovamente, da donna libera a puttana.
Il film ha una struttura estremamente lineare, con una sceneggiatura in tre atti che non difetta nella caratterizzazione dei personaggi secondari e che delinea una protagonista femminile di elevata complessità, il cui percorso innesca una riflessione sul ruolo della donna nelle società non propriamente “avanzate”, sulla sua accettazione e sul peso del giudizio esterno. Seppur con un finale un po’ troppo assolutorio, si è di fronte a un’opera girata con grande audacia, coraggiosa  nel mostrare un percorso senza happy ending, una retrocessione, una cavalcata verso la libertà che viene, come nel prologo, bruscamente interrotta.