Politico, Thriller

LE IDI DI MARZO

Titolo OriginaleThe Ides of March
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2011
Durata98'
Tratto dadall'opera teatrale 'Farragut North' di Beau Willimon
Scenografia

TRAMA

Le primarie democratiche in Ohio sono fissate per il 15 marzo: Stephen Meyers lavora per uno dei candidati alla presidenza, il governatore Morris, e si trova pericolosamente coinvolto negli inganni e nella corruzione che lo circondano.

RECENSIONI

Al quarto film da regista (il precedente, In amore niente regole, era un esercizio rètro alquanto fiacco), Clooney riprende in mano il discorso sulla politica e sul potere adattando per lo schermo l’opera teatrale Farragut North di Beau Willimon (anche tra gli sceneggiatori – ha scritto la pièce ispirandosi alla sua esperienza personale di collaborazione a diverse campagne -), utilizzandone le tematiche più come fucina di elementi drammatici e come sfondo, che in una chiave di denuncia o di schieramento a favore di una tesi.
In politica, nelle campagne elettorali in particolare, quello che appare è quello che conta, il rispetto delle regole è un handicap, la contromossa – anche sporca – una cartuccia da tenere sempre a disposizione; dietro la patina immacolata si attorciglia, dunque, un groviglio di intrighi, di malaffare, di compromessi indicibili che resta sostanzialmente irrinunciabile, il prezzo da pagare per arrivare all’immagine proposta: limpida, senza increspature, icona che diventa propaganda e sostanza (- Hai mangiato la sua mela avvelenata? – Sì, ed era deliziosa); a dire: il governatore Morris sembra un uomo affidabile, ma la sua immagine è solo la punta visibile di un iceberg sommerso.

Il film vorrebbe squarciare il velo sul dietro le quinte della strategia mediatica: il protagonista, Stephen Meyers, vero e proprio guru della comunicazione, regista della campagna che decide le tattiche, dispone le pedine in campo, muovendole secondo le esigenze, ha il compito di rendere interessanti le questioni proposte dal suo candidato, di umanizzare i dati, di fare delle statistiche un elemento attrattivo; è un uomo che ha fascino, grandi capacità, tremendamente sicuro di sé. Ma l’eccesso di disinvoltura crea mostri: il rivale Tom Duffy, riconoscendone la bravura e la conseguente pericolosità, gli chiede di incontrarlo; ingenuamente il nostro accetta: con quel suo semplice consenso Stephen perde la partita, avendo messo in discussione, senza accorgersene, la lealtà al team al quale appartiene (Non hai fatto un errore, hai fatto una scelta).
Da quel momento la storia si complica, accumula elementi, vuole spiazzare di continuo lo spettatore dando avvio ad un’escalation che non ha battute d’arresto; fidando sulle sue ambiguità, prende strade sorprendenti, ma questa imprevedibilità diviene talmente puntuale da mostrarsi programmatica, risultando il film un thriller meccanico dalla tensione ipotetica, vittima della sua stessa metodica implacabilità.

Clooney, da parte sua, gestisce con mestiere tutti i risvolti della narrazione, i complotti e i piani cospirativi che si incrociano, ma non elabora a dovere il cambio di segno del protagonista: Stephen, provato dal suicidio della stagista-amante, messa incinta da Morris (l’aborto viene finanziato dal fondo cassa, l’eliminazione del fattaccio è del resto vitale per la riuscita della campagna) diventa improvvisamente cinico e calcolatore; da collaboratore fedele ed entusiasta, di fronte alla necessità di mettere da parte la sua fede nel candidato per le logiche impietose dei giochi di potere, avvelenato dalla politica che aveva idealizzato, si trasforma in una macchina di vendetta.
Il regista si affida a un linguaggio visivo tanto semplice quanto efficace (le silhouette di Meyers e Zara sull’enorme bandiera americana illuminata, ombre che manovrano la campagna; l’incipit e la sua eco distorta nel finale), può contare su una sceneggiatura di buon livello (i dialoghi sono il punto forte dell’opera - Sono le puttanate che fanno i repubblicani. E sono le puttanate che li fanno vincere -), lancia un paio di proclami veri quanto ovvi e viceversa (in soldoni: puoi fare qualsiasi porcata, invadere un paese straniero e gettare il tuo in una crisi economica gravissima, nulla ti accadrà, ma se scopi con una stagista sei finito), accenna addirittura toni da commedia sofisticata (l’incontro pre-sessuale tra Stephen e Molly)  innestandoli sul modello principe che, il titolo lo conferma, è  la grande tragedia scespiriana, in cui tutti i personaggi (paradigmi contemporanei: il candidato, il portavoce, la stagista, la giornalista) possono ricoprire qualsiasi ruolo, a seconda della prospettiva che si decide di assumere, fa un lavoro sopraffino con lo scintillante cast (Gosling è un tantino granitico, ma la Tomei, in un ruolo di chiara marca maschile, come sottolineato da quell’impermeabile informe e dagli sfiguranti occhialoni, è meravigliosa): il risultato finale è lodevole per costruzione e freddo nell’esito, un film che resta intrappolato nella sua solida impalcatura.

La trama è fitta di eventi e doppi giochi machiavellici: esemplare il testo verboso del drammaturgo Beau Willimon (“Farragut North”, andato in scena nel 2008 e ispirato alla campagna di Howard Dean). George Clooney ama i dialoghi ficcanti e si circonda di interpreti di provata bravura per sostenerli dimostrando, ancora una volta, di possedere un talento registico non comune nell’elaborazione del montaggio, nell’uso del commento sonoro, nel modo ricercato in cui incastra scene e piani narrativi. Sceglie, ancora con i modi di un cinema del passato che ama (ha citato, per l’estetica, Perchè un Assassino di Pakula), un (com)plot(to) che gli permetta di carrettare i suoi profondi e sentiti convincimenti progressisti, nel momento in cui denuncia, non per primo (altro modello: Il Candidato di Ritchie), il modo in cui la macchina della campagna politica schiaccia anche l’uomo più resistente ai compromessi e guidato da alti ideali. Nel guidare quest’opera, però, è come se fosse troppo sicuro di sé: nell’elaborazione drammaturgica, nel taglia-e-cuci della sala di montaggio, nel fare affidamento sulla sceneggiatura di ferro. Scivola, invece, proprio sulla scena chiave (il suicidio), quella che opera un cambiamento decisivo nel personaggio di Ryan Gosling e che dovrebbe restituire, allo spettatore, il senso di amarezza e cinismo dell’intero racconto: un passaggio fondamentale che dovrebbe caricarsi di significati pregnanti e, invece, appare ambiguo, mal motivato, quindi ininfluente sulle successive reazioni del personaggio. Peccato, la tragedia shakespeariana con le “idi di marzo”, altrimenti, funziona egregiamente.