Commedia, Drammatico

THE ARTIST

TRAMA

Ascesa e caduta del divo del muto Georges Valentin.

RECENSIONI

Nel corso degli ultimi anni, dal cult La classe américaine, in cui rifunzionalizzava frammenti di cinema classico americano per imbastire una fiction inedita ed irresistibile, al dittico OSS17, parodia del cinema di spionaggio sfrontata e sboccata, Michel Hazanavicius è divenuto il rappresentante di un cinema ipertestuale e nostalgico. Il suo modo di rapportarsi alla storia del cinema è radicalmente diverso rispetto a coeve operazioni postmoderne. Il suo obiettivo non è, con The Artist ora come in passato, quello d’innovare il linguaggio cinematografico integrandovi i codici del passato, ma di riprodurli quasi pedissequamente e farli “circolare” nel presente. In questo senso, The Artist riattiva un dispositivo filmico e un linguaggio d’inizio ‘900, tra narrazione oramai affinata e residui di ”attrazione”, maneggiando gli ingredienti con una consapevolezza storica in grado di attivare domande sul cinema che ha “vinto la battaglia”: che cosa ha inventato il cinema sonoro, a parte il silenzio e le frontiere linguistiche?
L’autore tematizza e formalizza gli effetti del passaggio dal muto al sonoro, imbastisce un racconto di ascesa e caduta piuttosto convenzionale per lavorare sulla forma e sulle forme di cinema, con una rimarchevole attenzione per la composizione del quadro, un amore smisurato per le sue fragili creature, una sottigliezza e un’intelligenza suscettibili di sfuggire ad una prima visione. Hazanavicius introietta lo stile del cinema muto, lo incorpora, senza per questo rinunciare ad incongrui ed « anacronistici » movimenti di macchina o a dissolvenze ardite, a preannunciare l’inesorabile approssimarsi dell’avvento. Scontati ammiccamenti (da Lubitsch a Lang, da Lang a Cantando sotto la pioggia) possono di conseguenza convivere con inaspettate citazioni (la sequenza ad episodi del pranzo con la moglie rinvia al deterioramento del ménage coniugale di Quarto Potere).

L’accusa di film di maniera può facilmente essere rovesciata per argomentare la tesi opposta: The Artist è un film d’avanguardia alla maniera del cinema muto, un’opera di transizione e sulla transizione, un pastiche organico e fiammeggiante, un sogno-incubo (si pensi alla splendida sequenza onirica in cui il protagonista ode i rumori del mondo) sull’incomunicabilità e sul mutismo esistenziale, sulla vanità (della fama, delle immagini) e sul riscatto.
Dujardin, già irresistibile 0SS17, sempre in scena, è atletico come un Gene Kelly e entusiasta e fragile come un Fred Astaire.
The Artist, oggetto che si vuole anomalo ma che non si accontenta di esibire la sua anomalia come un trofeo di caccia, in ragione della sua natura meta e paratestuale, e forse più di quanto avessero immaginato i suoi autori, vive e vivrà oltre i limiti del testo, dunque nel contesto socioeconomico attuale, il suo vero e autentico finale di partita: la rivincita del silenzio sul vacuo vociare e sul frastuono, il rinnovato abbattimento delle frontiere linguistiche che può permettere ad un’opera « francese », oggi come negli anni venti, di trionfare nel mondo.

The Artist è un film muto: qui la sua attrazione.
Nella duplice accezione del termine, fisica e spettacolare, questa eccentrica soluzione espressiva dovrebbe rappresentare la forza che sollecita un corpo – il pubblico – ad avvicinarsi ad un altro corpo – il film –, come ha ben capito l’avveduta distribuzione italiana che ci costruisce sopra una campagna pubblicitaria ad hoc. Ma attrazione è un termine complesso che rasenta anche la storia del cinema, dalle origini (il cinema della attrazioni, appunto), alle avanguardie storiche, fino alla produzione hollywoodiana contemporanea: strategia discorsiva in opposizione alla narrazione, dove il rapporto film-spettatore si fa più diretto, ludico e smaliziato, al punto da sussumere una spettacolarità stupefacente ed ipnotica. E qui rientra in ballo The Artist. L’assunto di base potrebbe apparentarsi ad una sorta di Postmodernism for Dummies: tutto è già stato detto, tutto è già stato raccontato; quindi,  tanto vale giocarci sopra.
Già con il dittico su OSS 117 (Le Caire nid d’espion, 2006, e Rio ne répond plus, 2009), Michel Hazanavicius e il suo entourage – la moglie Bérénice Bejo, il mattatore Jean Dujardin, il direttore della fotografia Guillaume Schiffman – prendevano a pretesto le avventure della celebre spia, protagonista della saga da 265 romanzi di Jean Bruce e famiglia, per mettere su un pastiche occhieggiante a James Bond, agli spy movies di Hitchcock  e al cinema classico di avventura. Di fronte alle potenzialità di un soggetto che si prestava a crocifiggere la pompa colonialista della Francia di Coty e De Gaulle, nel primo film, e, nel secondo, la sfrontatezza dell’epica spionistica di fronte alla Shoah, la scelta era invece caduta sullo sberleffo degli stereotipi culturali, sessuali e razziali nel nome di un politically uncorrect dal tono leggermente più brillante di quello a cui la neotelevisione ci ha abituati. In altre parole, i due OSS 117 dimostravano il paradosso di una moralità liquida, la quale, a forza di burlare l’integralismo, finiva per simpatizzare con il suo altrettanto sanfedista avversario (e, quindi, sessuofobia vs. fallocrazia, sciovinismo vs. razzismo, etc.). Eppure i due film, se si scende a patti con l’abiezione, denunciavano un tocco e una professionalità che avrebbe potuto avere sviluppi promettenti. Nondimeno trovare il film successivo, The Artist, tra i papabili alla Palma d’Oro all’ultima edizione di Cannes, stupisce.
Il giochetto postmoderno con la grande Hollywood rimane uguale: stavolta a salire sulla scena sono Cantando sotto la pioggia e Viale del tramonto, dai quali si mutuano i soggetti, le atmosfere e diverse trovate stilistiche. Così, si prende l’esuberanza del primo e le tribolazioni del secondo, si lascia mantecare tra Fred Astaire e Ginger Rogers, poi in padella a ritmo fiammeggiante, una spolverata di musica d’epoca e di buon mestiere, si decora con un cane ammaestrato e qualche etto di paillette e, infine, si serve su un bel piatto di bianco e nero pastoso.
Ne consegue che ogni traccia di discorso sociale venga con cura espurgata, e che pure il grottesco e il non-sense siano spodestati da un umore lieve ed innocente, calibrato per non dispiacere a nessuno. Ma è il cinema stesso che innanzitutto gioca una funzione diversa: non più il referente condiviso su cui sciabolare una demenzialità rutilante, qui è l’elemento principe sul quale si costruisce tutto il film. Come a dire, film del cinema e sul cinema.

Del cinema

Della sua aura mitica, quella dell’età d’oro dei roaring Twenties e del divismo, quando l’immaginario collettivo era sopraffatto dalle prodezze di Douglas Fairbanks e dallo charme sfuggente di Rodolfo Valentino – chiamati direttamente in causa da un Dujardin più gigione che mai – e nessun medium poteva fregiarsi di una presa tanto potente sui sogni e sulle aspirazioni dei più. E della rivoluzione copernicana che sconquassa un mondo perfetto, sotto forma di rumore assordante e pervasivo, resa con mestiere nell’unica sequenza flamboyant del film. Dunque, una storia sull’irruzione della modernità e sulla relativa incapacità di stare dietro i propri tempi, in linea con tutti i film della Hazanavicius & Co. costituiti come variazioni sul tema dell’inetto. Per questo, e per un brio agrodolce di fondo, vicino a L’illusioniste, nel confronto The Artist affossa di parecchie miglia sotto il peso di una finta delicatezza: l’avvicendarsi di gag di terza mano a pezzi da melodramma piagnone, il vortice di cliché sullo show people e il ricorso a tutta una serie di stratagemmi a ribadire la sola peculiarità del film (tanto da berciare, come unica espressione udibile, che sì, è davvero un film muto quello che si ha di fronte).

Sul cinema

In effetti, anche stavolta sull’orlo di una nuova rivoluzione copernicana, che lascia dietro di sé vittime meno appariscenti. Se una delle parole d’ordine del nuovo corso è immersività, allora suonerà quanto meno strana la scelta di rinunciare ad uno dei più potenti strumenti espressivi del mezzo: la parola. Non è il primo caso di film muto in epoca sonora, e qualche tentativo più ludico lo si è visto anche in anni recenti (Guy Maddin, Dr. Plonk), opere in cui tuttavia l’omaggio ad un’epoca si lega ad una riflessione consapevole sul linguaggio cinematografico e la sua storia. Vero è pure che, in altri tempi, si erano persino viste deprivazioni ben più spettacolari, o meglio: tutt’altro che spettacolari, come quelle di grandi dissacratori (Debord, Jarman, Monteiro) che avevano rinunciato addirittura all’immagine, sostituendola con una tavola monocromatica. Paragone inopportuno ed inutile, ma che segna ancora una volta le distanze tra una pratica sovversiva e una strizzatina d’occhio al pubblico. Dopotutto, infatti, quella di The Artist è la trovata di chi, non sapendo come sbarcare il lunario, si mutila per essere esposto in un qualunque circo Barnum. Appunto, come un’attrazione.