TRAMA
Terri, ragazzo di quindici anni annoiato e depresso, tenta di riappropriarsi della sua vita.
RECENSIONI
Qualche volta è necessario che le cose indossino la loro forma più abnorme e caricaturale per farci accorgere che esistono e che da un momento all'altro possono iniziare a fare la differenza. Si tratta di rimbalzare sornionamente dal ruolo di vittima a quello di carnefice senza che la cosa crei particolare scompiglio per il mondo circostante. E' così che Terri, ragazzone di 15 anni incastrato nell'anonimia della provincia americana e con uno zio malato da accudire, decide di iniziare a rimbalzare. Da un lato la schiera dei buoni, dall'altra i cattivi, come insegna il preside Fitzgerald, che tenta un abbozzato quanto ambiguo processo di integrazione tra gli studenti più problematici della sua scuola. Un gruppo sul pollice, l'altro sul mignolo, nel mezzo le altre dita sospese, inutili, di riempimento, in attesa di essere assegnate ad uno dei due estremi. E se a scatenare questo altalenante andirivieni è la fascinazione per la morte (i topolini uccisi dalle trappole in soffitta che diventano cibo per uccelli rapaci, che solleticano l'interesse del protagonista) la scelta si innalza a giudizio morale e diviene quindi preponderante per l'integrazione dell'individuo, armato del suo solo pigiama, nel contesto-mondo. L'ambiguità del film di Jacobs vuole giocare proprio su questa oscillazione, sullo scarto esistente e labile che divide il ruolo del perdente, della vittima emarginata e alienata da quello del falco, del dominatore, del vincente dimentico delle proprie pecche e mancanze. Terri è un ritratto composito e instabile, è l'incontro di piccole o grandi schegge impazzite che, gravitando sui propri difetti, si intersecano e vanno a costituire, più o meno consciamente, una nebulosa che solo nel gruppo vede riconosciuta una sua indipendenza e armonia. Se il giovane protagonista, insieme ai suoi nuovi amici, rappresenta la purezza dell'imperfezione, ostinata nell'indolenza che la contraddistingue, gli adulti dal canto loro mimano goffamente la stabilità della normalità impartendo lezioni vuote e stereotipate che ingigantiscono ancora di più il baratro tra futilità dell'apparenza e profondità del disagio. Sicuramente il fattore limitante di una simile operazione risiede nella cristallizzazione dei personaggi in dinamiche altrettanto stereotipate (Terri che s'innamora della sua compagna di classe, il festino casalingo come momento di liberazione, il preside in crisi con la moglie) che suggeriscono, in maniera troppo blanda e frettolosa, un retroterra certamente non dei più innovativi. Rimane sullo sfondo anche il rapporto del protagonista con lo zio malato che probabilmente è in tutto il film l'unica figura interamente tragica che riesce quantomeno ad accennare ad un altro fattore, quello della patologia come scissione ulteriore dell'identità dell'individuo. Anche una sana dose di cinismo viene massicciamente stemperata e ingolfata da un'operazione che deve molto alla volontà di appiattire, di normalizzare, di definire chiaramente i confini, senza tener conto che le vere potenzialità tendevano ad esplodere sul versante opposto.