TRAMA
Tratto da una storia vera. Pisa, 1970. Terrore durante gli anni di Piombo. Tre ragazzi tentano la fuga verso la frontiera temendo un colpo di Stato imminente.
RECENSIONI
Sospeso nel tempo ed epico nella narrazione (di un'epica volta in burla, minima ma potente, da commedia all'italiana), I primi della lista, esordio alla regia di Roan Johnson, non racconta propriamente la Storia dello Stato Italiano - che compare didascalizzata attraverso le immagini di repertorio solo nei titoli di testa - bensì dell’archetipo, della paranoia e del terrore che ha colpito anche gli ambienti di Sinistra durante gli anni di Piombo; un simbolo a discapito dell’Immagine evocata e inutilmente posticcia (Romanzo Criminale), un film-sensazione intimo e confidenziale a discapito della costrizione al sogno maldestramente utopico sulle note iniziali di Bella ciao, costruzione dei personaggi essenziale e sapientemente intelligente a discapito delle mitologie giovanili inutili quanto calligrafiche, delle fotografie ormai forzatamente ingiallite delle lotte proletarie, della piatta adesione agli eventi storici in forma paratelevisiva e della faciloneria del bozzetto. Un film che racconta di un limbo dove tutto è già accaduto (Piazza Fontana, la defenestrazione di Pinelli, le lotte armate contro i manifestanti) e tutto deve ancora accadere (il golpe-Borghese, il rapimento di Moro, la strage nella stazione di Bologna), un limbo colmo di ambiguità, di non-detti e sospetti dove l’incertezza muta in movente radicale rendendosi fuga rocambolesca, non farsa né ironia volgare - assioma tipico della maggior parte del cinema italiano contemporaneo - bensì sguardo acuto su certi revival a tema politico volti in tema caustico (la contrapposizione tra fascisti cattivi e comunisti buoni, la propensione negli ambienti di sinistra a guardare quello che sta succedendo fuori dall’Italia e non saper sviscerare la situazione nella propria città) che hanno l’urgenza di una riflessione postuma.
Un hic et nunc privo di ritorni idealistici o stereotipi amorosi adolescenziali (Come te nessuno mai), dove l’Autentico non è escogitato (Mio fratello è figlio unico) - quindi ovviamente falsificato - ma messo in forma attraverso il ricordo del vero Lulli che aiuta Johnson nella sceneggiatura. I primi della lista ci parla del tempo trascorso attraverso una macchina da presa dai movimenti essenziali e calcolati, senza mai eccedere con il primo piano o con il dettaglio, che ci porta all’evidenza del fallimento di un’ideologia impetuosa ma purtroppo molto traballante: la presenza di Moro come Ministro degli Esteri, buffa quanto surreale, è infatti solo la prima avvisaglia di un sistema destinato a franare irrimediabilmente. La conclusione del film, sulle note di Quello che non ho di De André, per nulla dedita alla facile lacrima, è la sincera ammissione di un’impotenza generazionale vera quanto mai inguaribile.