TRAMA
L’intrepido reporter Tintin, assistito dal fedele Milou e dall’ebbro capitano Haddock, parte alla ricerca di un misterioso tesoro che giace in fondo al mare.
RECENSIONI
Primo film interamente in digitale e in perfomance capture dell’autore di A.I., Le avventure di Tintin: il segreto dell’Unicorno è un’opera esplosiva e sperimentale nella quale confluiscono, con brillanti interpolazioni e sagge omissioni, tre episodi della saga ideata dal fumettista belga Hergé: Il segreto dell’unicorno, Il tesoro di Rackham il Rosso e Il granchio d’oro. Steven Spielberg realizza uno dei suoi film più plasticamente densi, barocchi e liberi, un oggetto d’arte contemporanea travestito da spettacolo da baraccone. Dalla macchina da scrivere all’iris finale sul’occhio di Milou, il regista tematizza e integra nel racconto i processi che formano e informano l’avventura.
Opera sulle migrazioni dell’immaginario, sui passaggi da un medium (il fumetto) ad un altro (il cinema) ed da quest’ultimo ad un altro ancora (la performance capture), Le avventure di Tintin, ancor più e meglio dell’ultimo episodio di Indiana Jones, è una archi-avventura. Spielberg fissa i caratteri dello “slancio” che attiva ogni racconto (la curiosità, primo motore mobile), riflette sul senso stesso dell’azione, fa interagire e incorpora gli ipotesti senza mai cedere al citazionismo gratuito o alla parodia cerebrale di certo postmodernismo. Già i seducenti titoli di testa, che rinviano direttamente a Prova a prendermi, attestano il carattere transmediale dell’operazione e celebrano un commovente passaggio di consegne: una sfera luminosa, ideale torcia olimpica, passa di mano in mano nel micro-racconto iniziale; l’oggetto scivola sulla pagina scritta, attraversa un disegno fumettistico che si anima e viene infine depositato da un Tintin ancora silhouette sulla “i” di Steven Spielberg. La nuova visione, e non versione, di un immaginario passato sta per cominciare.
Visione, rappresentazione, sguardo. Finiti i titoli di testa, un’esplosione cromatica ci introduce nella diegesi forgiata dell’iper-demiurgo Spielberg. E’ il piano ravvicinato della tavolozza di colori del ritrattista di un mercatino dell’antiquariato. Il soggetto ritratto è, manco a dirlo, Tintin, e il quadro ci permette d’identificare, ancor prima dell’eroe riplasmato da Spielberg, il personaggio di Hergé che preesiste alla sua nuova veste tridimensionale e “gonfiata”. Spielberg omaggia la fonte e se ne allontana subito, focalizzandosi sul “suo” personaggio, moltiplicato (il suo volto riflesso su un muro rivestito di specchi) e infine nominato: “Come non lo conosce? E’ Tintin!”.
Mai come in Tintin il cinema digitale di finzione aveva esplorato, e sfruttato fino a rivelarne i paradossi, le specificità della performance capture. Avatar aveva certo dimostrato come la nuova tecnologia fosse capace di accrescere a dismisura il potere demiurgico del regista/creatore di mondi. Ogni centimetro del quadro, ogni angolo remoto della diegesi è sotto il pieno controllo di un produttore unico e solo responsabile di quel mondo, un universo simile al nostro ma che risponde a logiche e regole sue proprie. Il primo capitolo delle Avventure di Tintin prosegue e rafforza ulteriormente quest’impressione di dominio assoluto, liberandosi ulteriormente dei vincoli imposti dal codice del cinema tradizionale e facendo volare, danzare, aerea come una piuma, la macchina da presa virtuale. Il principio di realtà è sospeso, lo spettatore è catapultato dentro un sogno. Haddock, citando il Prospero scespiriano, dice che l’Unicorno è “della sostanza di cui sono fatti i sogni”. La soprano Bianca Castafiore, i cui acuti fanno sanguinare le orecchie, intona l’aria Je veux vivre dans un rêve dal Roméo et Juliette di Gounod. Tintin, e noi con lui, vogliamo vivere in una diegesi della sostanza di cui sono fatti i sogni.
La visione onirica deforma, riflette e fa riflettere sullo statuto generico dell’immagine-simulacro. L’immagine digitale è un simulacro all’ennesima potenza (“L’apparenza inganna” esclama il perfido Sakharine), la copia riformata di una realtà riplasmata e plasmabile all’infinito: liquida, anamorfica, fluida, magmatica. Tutti i personaggi principali, anche solo per un attimo, sono soggetti a deformazioni di varia natura (la soggettiva di Milou su Tintin rimpicciolito da una lente; il primo piano introduttivo di Haddock, col volto allungato per effetto della bottiglia di whisky che gli sta di fronte; Milou “dentro” la bolla di whisky sull’aeroplano), a rispecchiamenti su superfici riflettenti (specchi, lame, rasoi, bolle d’aria sull’acqua). La moltiplicazione è il principio cardine dell’opera: tre sono i modellini di vascello da recuperare e gli enigmi da fondere e sciogliere, due sono le coppie di antagonisti “diacronici” (Haddock/Sakharine del presente, Haddock/Sakharine del passato), due sono, come già nel fumetto, gli agenti dell’Interpool Dupond e Dupont. Per non parlare delle situazioni narrative, dilatate, iterate o ingigantite (come il duello finale con le lunghe “braccia-spade” dei montacarichi che replica, su vasta scala, lo scontro degli avi), ma sempre narrativamente produttive.
Spielberg non ha inventato, certo, il cinema d’animazione digitale, ma ha, forse ancor più di Cameron, brevettato una nuova forma di sguardo. L’occhio e l’immagine perdono l’inevitabile “pesantezza” della riproduzione meccanica del reale e dello strumento che la garantisce. La macchina da presa virtuale spielberghiana è leggera, volatile e volubile, aerea (si pensi all’impressionante piano sequenza della corsa nell’immaginaria casbah di Dagghar, in cui l’occhio della cinepresa riesce a seguire tre biglietti svolazzanti e cinque personaggi). Il digitale permette a Spielberg e Kahn di adottare soluzioni di montaggio assolutamente impraticabili nel cinema tradizionale. La fluidità che deriva dalla simulazione digitale rende obsoleto il concetto stesso di raccordo sul movimento (la splendida rievocazione della battaglia navale prima e del duello poi: una pagina di cinema che rimarrà negli annali) e le transizioni diventano anamorfici scivolamenti formali e semantici verso un altrove prossimo o lontano: la barca al largo/la barca su una pozzanghera di Bruxelles; una stretta di mano/le dune del deserto.
Oltre e prima del discorso sul mondo rappresentato, c’è il gioco del mondo rappresentato: il racconto. Tintin cristallizza il dispositivo narrativo del cinema d’avventura, ne fa implodere, in maniera quasi allucinata e compulsiva, le cadenze ritmiche (salta l’alternanza azione/pausa/azione: ogni passaggio, anche il più insignificante, fa comunque avanzare il racconto) ed esplodere le dinamiche, le tracce e le “pulsioni” recondite. Il meccanismo gonfio e straboccante è attivato dal personaggio di Tintin e alimentato dalla sua forma mentis. Curioso e iperattivo, scattante e razionale, il piccolo eroe governa la linea narrativa principale, che come lui scorre spedita e irrefrenabile (“Non possiamo tornare indietro, non ora, non ora”). Quando il personaggio, e il racconto che lo vede protagonista assieme al fedele Milou, incontra Haddock, il nevrotico principio dello “straight on, straight on” entra in collisione con il suo opposto: la stasi, l’esitazione, la catalessi. La fredda linea dritta del racconto d’avventura incrocia la parabola zigzagante e oscillante dell’uomo caduto. E il racconto si anima, si apre al passato pur essendo proiettato nel futuro. L’opposizione diventa presto alleanza e sfonda i muri, il racconto avanza a rotta di collo regredendo (il passato vive nel presente), la linea orizzontale diviene prima obliqua, poi curva. Ritorniamo, così, al punto di partenza.
Spielberg approfitta del nuovo mezzo per perlustrare non soltanto lo spazio forgiato e smontare e rimontare il genere di riferimento, ma per riattraversare il suo cinema. Una re-visione che va dall’ammiccamento facile (la cresta di Tintin che spunta dall’acqua) alla rielaborazione caratteriale più sofisticata (Haddock ricorda molto il pilota ubriacone Belushi di 1941 – Allarme a Hollywood), dalla realizzazione di alcuni “impossibili” del suo cinema e del cinema “live” tout court (gli inseguimenti del quarto Indiana Jones avrebbero voluto essere come la corsa a Dagghar) alla limpida riproposizione, in sequenza, dei due “movimenti” e delle due opposizioni che reggono l’intera sua opera e che ruotano attorno ai quattro elementi della natura: caduta (acqua-terra-terra)/ascesa (aria). In una delle sequenze centrali del film, ritroviamo Tintin, Milou e Haddock su una barca al largo. Tintin e Milou giacciono svenuti. Haddock è assetato, recupera una bottiglia di whisky, beve, si ubriaca, ha freddo, accende un fuoco. Tintin si sveglia, lo redarguisce, Haddock cerca di spegnere il fuoco col whisky, la barca esplode senza affondare, Haddock vorrebbe suicidarsi gettandosi in acqua. Tintin vede un aereo approssimarsi, gli scagnozzi di Sakharine sparano, Haddock cade inavvertitamente in acqua, Tintin risponde al fuoco e fa cadere l’aereo, si tuffa in acqua, si dirige verso l’idrovolante abbattuto, minaccia i piloti, Haddock e Milou lo raggiungono, insieme decollano, volano, schivano i pericoli fino ad un rocambolesco atterraggio nel deserto.
Spielberg è conscio del potere della macchina-cinema: illusione, inganno, piacere di essere ingannati. E’ consapevole di essere un manipolatore che agisce sulla realtà con la discrezione e l’impertinenza con la quale il borseggiatore di Tintin ruba portafogli. Non è un caso che l’anziano cleptomane sia, fisicamente, la copia conforme del regista. Il cinema è artificio, simulacro, gioco, follia regressiva. Meglio allora metterne a nudo il meccanismo, spingere sull’acceleratore, ingigantire e deformare, tirare al massimo le fila (si pensi all’auto di Sakharine tirata su dal montacarichi manovrato da Haddock, in quest’occasione vicario del regista-burattinaio) e far dimenare le iper-marionette che popolano il paradiso artificiale come degli ossessi. Dal racconto per il racconto scaturirà un piacere immenso e caduco, produttivo e distruttivo al tempo stesso, vitale e mortifero, debordante e scarnificato, perturbante e accattivante. Della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni…
Creo ergo Sum
Dopo quarant'anni di grande cinema, dopo una serie di irripetibili successi commerciali, dopo lavori di caratura generazionale che ancora oggi segnano l'immaginario popolare cos'altro può ancora chiedere il cinema ad un regista come Steven Spielberg? Ma, soprattutto, dopo essersi presentato come uno dei più aggressivi tra i movie brats con le sue opere degli anni Settanta, dopo aver fatto sognare spettatori più e meno giovani negli anni Ottanta, dopo aver riscritto le coordinate della rappresentazione dell'Olocausto al cinema, cosa può ancora chiedere l'autore di Incontri ravvicinati del terzo tipo ad un mezzo espressivo che sembra avergli dato tutto? Le avventure di Tintin – Il segreto dell'unicorno sembra offrirsi come risposta a questi quesiti, dimostrando in maniera tutt'altro che velata lo stato della ricerca formale di Spielberg.
Ammaliato dall'uso delle tecnologie tridimensionali fatto da James Cameron in Avatar, Spielberg capisce di poter finalmente portare sullo schermo in maniera compiuta una storia d'avventura, di poter garantire quell'immersività spettatoriale che nei lavori precedenti gli era riuscita solo in parte, ma che con le attuali tecnologie può essere plasmata con “la materia di cui sono fatti i sogni”. Ancora una volta, sebbene si tratti di un adattamento, la narrazione spielberghiana torna a suonare gli accordi prediletti, riparte dal cuore pulsante della poetica dell'autore, che prende le mosse dal racconto fantastico e dal romanzo d'avventura e che vede in Mark Twain il suo referente principale.
Se uno degli obiettivi principe di Spielberg è da sempre il lavoro sul legame emotivo tra opera e spettatore, la consapevolezza che la prima avventura è quella vissuta dallo spettatore dal momento in cui si spegne la luce in sala e il proiettore inizia a girare, allora quest'ultimo parto riesce in maniera particolarmente efficace a trasportare l'ordinario astante in circostanze effettivamente straordinarie. Sì, perché le dimensioni fantastica, onirica, immaginifica, peculiari dell'avventura spielberghiana, prendono forma come mai prima in quest'opera, grazie soprattutto all'uso innovativo della combinazione 3D/motion capture, che mette il regista nella condizione di creatore totale dell'opera, proprio come può esserlo uno scultore o un pittore astrattista.
In questo senso i titoli di testa rappresentano la perfetta dichiarazione d'intenti, la sintesi essenziale dell'appropriazione tecnologica compiuta da Spielberg, a metà tra intrattenimento ludico e avanguardia. L'autore assurge al grado di assoluto deus ex machina, capace di vincere la natura, di scavalcare col digitale i limiti del reale, di manovrare la telecamera con la libertà incontrastata della fantasia. È così che assistiamo all'osmotico dialogo tra le note jazz di John Williams e un mondo che abbiamo sempre sognato di abitare, che abbiamo sempre desiderato di manipolare e che assume forme diverse ad ogni angolo di visione, mutando incessantemente: sistema a scatole cinesi dove si incontrano ispirazione artistica e innovazione tecnologica.
L’amore per i fumetti del belga Hergé (pseudonimo di Georges Prosper Remi), nel tradurre tre suoi albi (“Il granchio d’oro”, 1941; “Il segreto del liocorno”, 1943; “Il tesoro di Rackma il rosso”, 1944), porta Spielberg alla totale filologia, in figuratività e racconto (ma non nel ritmo, più “rilassato” nelle strisce): insolitamente per un “blockbuster”, il demodé non alberga solo nel profilmico ma anche nei modi, con repliche, ad esempio, di un umorismo non aggiornato alla contemporaneità. Grande ammiratore di tutta una certa narrativa popolare di inizio novecento (vedi Indiana Jones), Spielberg cerca lo spirito d’avventura mirabolante, con un pericolo che rincorre l’altro, in luoghi esotici e con antagonisti e amabili compagni caricaturati. Ma non sono certo le invenzioni drammaturgiche a colpire positivamente (sceneggiatura dell’inglese Steven Moffatt, con riscrittura ad opera della “factory” dietro a Hot Fuzz & co.: il regista Edgar Wright, l’attore Joe Cornish e Simon Pegg che, invece, recita uno dei due gemelli con il motion capture), bensì la tecnica e la creatività al servizio dello storyboard (magistrale, ricco di un talento effettistico che non vedevamo da Minority Report): il povero Zemeckis, pioniere del motion capture, è ormai lasciato al palo dall’avanzamento della tecnica e il design di Spielberg e soci è azzeccato nel modo in cui preserva la natura “di cartone” dei personaggi pur donando loro un’anima che, ad esempio, mancava ai caratteri di Polar Express. Se Sakharine è William Hurt in tutto e per tutto, TinTin ha le evidenti fattezze di Jamie Bell, anche troppo: se nel fumetto il personaggio era irritante per verbosità e ragionamenti (ma interloquiva con il cane, qui muto: pare, infatti, perso in soliloqui fuori luogo), su grande schermo lo diventa per straniante efficacia della sua espressività “umana”. Compensa il grande divo del motion capture Andy Serkis (“lanciato” da Peter Jackson, che qui produce), con un meraviglioso, spassoso capitan Haddock. Spielberg, al suo primo film animato, ha compreso quale sia il valore aggiunto di questo modo di fare cinema, e lo sfrutta appieno, facendo fare alla macchina da presa (e al montaggio: vedere i raccordi immaginifici) cose impossibili in un live action, con un’organizzazione spaziale della consequenzialità delle inquadrature che rende al massimo il senso di movimento, la profondità del 3D, i totali dove, essendo tutto a fuoco, si può riempire ogni angolo di dettagli (vedere, ad esempio, il profilmico nella cabina di Haddock).