TRAMA
Alla morte della moglie, il padre di Pietro e Alessandro affida ai figli due cavalli non ancora domati.
RECENSIONI
Il cavallo come doppio simbolico dell'essere umano: potenzialità da imbrigliare o da lasciare libera, preda dei giochi del caso come delle inclinazioni naturali, e al tempo stesso letterale veicolo di una fratellanza che cresce e si rafforza malgrado il tempo che passa e le distanze (non soltanto fisiche) che aumentano. Il primo lungometraggio di Michele Rho (regista teatrale e documentarista) ha il pregio di calare la metafora (non esattamente originalissima) in uno scenario sufficientemente vago e sfumato (un'Italia indefinitamente ottocentesca, ai confini tra il bozzetto in costume e la fiaba) da conferire al racconto una dimensione epica che rimanda, più ancora che al vagheggiato western, ai film di Ermanno Olmi e Franco Piavoli (la natura che, di volta in volta accogliente e ostile, culla i personaggi coinvolgendoli nei propri cicli vitali, su tutti quello acquatico). Il film regge e avvince nella misura in cui riesce a temperare lo schematismo degli insistiti parallelismi (il lupo che sembra vegliare sul legame tra i fratelli, la nivea fattrice, la corsa dei carretti che riecheggia nella disperata fuga di Alessandro braccato dai suoi persecutori, le ferite simmetriche a deturpare i volti dei ragazzi) con gli eloquenti silenzi di un racconto saggiamente ellittico, ma l'essenzialità della tragedia arcaica (la figura enigmatica e infinitamente mesta del padre) non è sufficiente a evitare il miele delle facili parentesi poetiche (gli amori di Pietro e Veronica) e la velleità degli episodi in odore di riempitivo (l'acerbo seguace di Alessandro). A ogni modo, un debutto interessante.
