TRAMA
Anni Trenta. Mildred Pierce si separa dal marito e comincia una lotta per sopravvivere in un’America attanagliata dalla crisi. L’impiego di cameriera le consente di mantenere sé e le due figlie, ma è solo l’inizio. Con determinazione riesce ad aprire un proprio locale e di lì a poco un’intera catena di ristoranti…
RECENSIONI
E’ impossibile parlare della miniserie di Todd Haynes senza menzionare l’omonimo film del 1945 (in Italia: Il romanzo di Mildred): Haynes, da fine conoscitore di cinema classico, un confronto col film di Michael Curtiz l’ha sicuramente previsto e implicitamente sollecitato. Il testo di partenza di James M. Cain (Il postino suona sempre due volte, La morte paga doppio) - romanzo marcatamente sociale che si faceva portatore di uno sguardo disilluso sul sogno americano, che descriveva gli U.S.A. della Grande Depressione senza fare sconti e un milieu fortemente minacciato dalle circostanze storiche - ha come nucleo narrativo la scalata di una donna a una società in cui le barriere dei ceti sembrano inespugnabili. Il film di Curtiz lo stravolgeva, mantenendone i personaggi e le dinamiche relazionali di base, ma intervenendo in maniera decisiva sulle loro motivazioni e inserendo un delitto, inesistente sulla pagina, che trasformava radicalmente il finale e faceva virare inevitabilmente il film verso il genere noir: l’incipit, completamente alieno rispetto alla pagina scritta, dava subito la misura della distanza tra la storia narrata da Cain e quella condotta da Curtiz [1]. Il film cominciava dalla conclusione della storia (l’omicidio di Beragon) e narrava la vicenda attraverso lunghi flashback attivati a più riprese dal racconto che la protagonista (interpretata da una Joan Crawford di sublime gigioneria, che per questo ruolo guadagnò il suo unico Oscar) faceva all’inquirente, sottintendeva storie senza esplicitarle (il sesso tra Wally e Mildred), modificava fatti per consentirne una più semplice condensazione (l’acquisto dei locali del ristorante da Monty Beragon) e riconsiderava la successione degli eventi, modificando il carattere dei personaggi (Bert, il marito, era molto lontano dal borghese mite e accondiscendente del romanzo). Todd Haynes, al contrario, porta sullo schermo il romanzo di Cain quasi alla lettera, in cinque ore ha modo di proporne tutti i motivi, evidenziarne le sfaccettature, individuarne i nodi. Come in Lontano dal paradiso, mantiene uno standard visivo piano e classico, ma senza edulcorare i temi forti dell’opera letteraria, chiamando, attraverso le immagini, le cose con il loro nome: il sesso si fa a letto, il desiderio, maschile e femminile, è esplicitato (un cunnilingus, pure), le nudità e i discorsi sono privi di filtri. Il personaggio di Mildred Pierce emerge, dunque, in tutta la sua ambiguità, una donna che, se da un lato combatte con fatica e determinazione per ottenere un posto di rispetto nella società, non esita a farlo a qualsiasi costo e sempre a spese del maschio, figura denigrata, sottilmente sfruttata e alla fine spogliata di tutto; così il marito perde la casa, l’auto, le figlie, poi acconsente al divorzio accollandosene la responsabilità; così Wally, è un amante mai desiderato, ma utile come consigliere finanziario; così Monty, aristocratico decaduto, - che per quanto sembri sfruttarla, in realtà è ben conscio di essere una sorta di gigolò stipendiato con soldi che danno modo a Mildred, frustrata e wannabe, di vendicarsi della sua ostentata superiorità, e che di fatto sanciscono la sua dipendenza da lei – viene sposato dalla protagonista solo per riattirare una figlia a cui la donna è legata da un rapporto fortemente condizionato dal denaro, un amore dimostrato solo attraverso un prezzo da pagare, costantemente e letteralmente monetizzato.
Veda Pierce è lo specchio delle ambizioni della madre, l’esplicitazione di una protervia che, se nella ragazza è aperta e sfrontata, nella madre non è meno forte, ma velata dall’ipocrisia, mediata da un complesso sistema di opportunismi: Veda è il cieco orgoglio che Mildred sente di avere, ma non riesce a esternare; è l’alterigia che lei vorrebbe sbandierare e alla quale rinuncia; è il suo demone, la sua coscienza incarnata, il simbolo vivente della sua parte più crudele; Veda è lo strumento attraverso il quale Mildred si confronta e misura con la sua ambizione spietata. Il suo dark side [2]. Per questo, al di là dei suoi comportamenti più odiosi, dei suoi atti più condannabili, Mildred è sempre pronta a perdonare la figlia, se assente ne sente la mancanza, memento irrinunciabile di quella parte di sé che, repressa dal falso moralismo, riesce ad urlare solo attraverso gli snobismi ridicoli della ragazza. Il rapporto di odio-amore con la figlia è la traduzione del travaglio interiore della madre, è il marcio che cova sotto la sua coscienza fintamente virtuosa: Mildred decide di lavorare, ma Veda non deve saperlo; Mildred, nonostante lo spettro della fame si faccia reale, rinuncia al lavoro di governante di Lady Forrester, perché costringerebbe la figlia a entrare dalla porta di servizio della magione; Mildred fa la cameriera, ma, scoperta, confessa alla figlia (l’idea le viene in quel momento) che è tutto un training in vista dell’apertura di un proprio locale; Mildred scongiura la figlia di non abbandonare la sua visione delle cose, appiglio al quale segretamente ella per prima si aggrappa; Mildred si indebita e arriva alla bancarotta pur di assicurare a Veda il lusso che pretende [3]. Haynes, memore di Fassbinder, in Mildred Pierce sembra ambire a una riproduzione retorica della realtà, costruisce un’opera formalmente impeccabile, girata splendidamente, ma che si riduce all’operazione intellettuale, come serie televisiva funzionando a corrente alternata: beandosi soprattutto del suo progetto di recupero integrale (integralista?) degli elementi del romanzo (l’intento è di riprodurre sullo schermo tutta la complessità della pagina scritta, di fare della vera e propria letteratura filmata), la miniserie risulta, su questo piano, fin troppo certosina e puntuale, limita la visione dell’epoca alla sola patina letteraria, opta per una rappresentazione dei fatti tanto inverosimilmente precisa (mancando il narratore onnisciente del romanzo, quello che non emerge dai fatti, viene fatto affermare, con pedante puntualità dai caratteri) quanto frigida: ne esce un prodotto straordinariamente rifinito (art direction impeccabile, fotografia di Ed Lachman che guarda alla pittura realista dell’epoca) ed eccessivamente lungo, in cui non si opera mai un lavoro di sintesi (volutamente, ma ciò non valga come giustificazione), ma una riproposizione maniacale e meccanica di ogni risvolto, abbandonandosi il film ad un racconto, oberato di dettagli, a ritmo discontinuo (quello che funziona meravigliosamente sulla pagina, riprodotto integralmente non è detto che funzioni parimenti bene sullo schermo). Si alternano dunque momenti assai alti (due esempi: mentre si consuma l’alterco tra i coniugi Pierce che porterà alla loro separazione, vero motore della vicenda, la macchina da presa compone un prologo visivo, soffermandosi sulle foto di famiglia esposte nel salotto e descrivendo, attraverso quelle immagini, i personaggi della storia; la rassegnata decisione di Mildred di fare la cameriera è resa attraverso una semplice alzata dal tavolo del locale, in semisoggettiva), ad altri in cui si impone una tendenza al vezzo stilistico legata più alle esigenze del coté teorico che a quelle della concretezza drammaturgica. Se Lontano dal Paradiso, che è pietra di paragone obbligata, parlando di questo film, era sì un progetto rivisitativo di una forma, quella del melodramma sirkiano, e che però non si limitava a quello (si discettava teoricamente del genere attraverso un mélo che, come tale, funzionava), qui il lato intellettuale rimane più distaccato rispetto al resto, preponderando il carattere teoremico della questione. Splendido il'intero cast: Kate Winslet è talmente perfetta per il ruolo, così meravigliosamente a suo agio da apparire senza alterrnative.
[1] James M. Cain: Io non vado al cinema. Ci sono cibi che a certe persone non vanno giù. A me non piacciono i film. La gente mi dice: "Non ti interessa sapere che cosa hanno fatto al tuo libro?". Ma io dico: "Non hanno fatto niente al mio libro. E' proprio là sullo scaffale". (L’arte della narrazione – intervista di David L. Zisser per The Paris review, 1978- Fandango Editore)
[2] La valenza simbolica del rapporto madre-figlia era affrontata anche dal film di Curtiz. Non è un caso che Mildred, che conosce la verità dell’omicidio Beragon (l’uomo è stato ucciso da Veda), non la confessi e faccia di tutto per coprire l’assassina. Il noir è il genere che Curtiz utilizza classicamente per decrittare ed estremizzare temi che il romanzo reca in sé in forma implicita.
[3] C’è da pensare che il finale della miniserie (e del libro) che riporta tutto al punto d’inizio, con Mildred e il marito di nuovo insieme nella loro casa e la figlia degenere lontana, sia fintamente conciliante e risolutivo. Mildred prima o poi sentirà la mancanza di Veda, avvertirà di nuovo quella voce che le viene da dentro e probabilmente rimollerà il marito per darle ascolto.