Drammatico, Thriller

LA PELLE CHE ABITO

Titolo OriginaleLa piel que habito
NazioneSpagna
Anno Produzione2011
Durata117'
Sceneggiatura
Tratto dadal romanzo Tarantola di Thierry Jonquete
Scenografia

TRAMA

Un chirurgo plastico si cura, con morbosità, della nuova pelle di una donna che tiene segregata…

RECENSIONI

Sì, questo è uno dei film più spoilerati dell'anno. E no, non pensate che questa recensione si esima dal seguire la corrente.

«Modern man has an epidermis rather than a soul»  (James Joyce)

Tutto era già accaduto, in Gli abbracci spezzati. Tutto era passato. Passato che agiva sul presente, in forma di flashback. L'unico gesto attuale, teso al futuro, era il restauro di un'opera remota. L'unico atto: un ritorno. Di celluloide. Ritorno al/del passato per dirsene distanti, presa di coscienza algida eppure mélo, autismo autodistruttivo, autoreferenzialità malinconica, cinema che autofagocitandosi espimeva un sentire dilaniante, (ar)resa commovente. Il lato oscuro del solare esercizio di sé Volver: non l'applicazione di una maniera, ma una maniera che si poneva in discussione e infine si abbandonava a se stessa. Perché l'unico desiderio (sentimento propulsivo di tutto il cinema almodovariano) era l'immagine, ma non l'immagine di sé, come (ed è solo un esempio) nel capolavoro Il fiore del mio segreto, ma l'immagine del cinema che fu, il proprio e quello fatto proprio: come un diamante, forma cristallizzata in contenuto, perfettamente. La pelle che abito prosegue in questo percorso. E la pelle del cinema di Almodovar non è mai stata così visibile. Coacervo di tematiche stilizzate a bassa temperatura drammatica, saggio di poetica ridotto a forme basilari: c'è tutto Almodovar, sulla superficie fredda di questo film, opera che riduce il suo vocabolario a immagini semplici e ricorrenti: si racconta di un auto che brucia di fronte al fuoco di un camino, un close up su una maglietta bagnata richiama un frammento di epidermide appena impresso sullo schermo (pelle su pelle?), le donne e gli uomini vivono sempre almeno due volte, e il decòr figlia il mondo e viceversa. Il mondo (narrativo e iconico) di La pelle che abito è colmo di doppi, il cinema di Almodovar è un paese incestuoso a partire dal casting, chiuso e (auto)citazionista, semplificato a un lessico elementare che reiterato crea vertigini, mette in abisso e plasma una fisica propria. Una semantica a se stante, dove ogni gesto è polisemico, dove il grottesco sfacciato sa essere forma drammatica, e tutto sfugge all'etichettatura (a cominciare dall'evento dinamico: è uno stupro?): perché Almodovar sa tessere insieme (e chi altri sa farlo?) il distacco parodico e la funzionalità narrativa, in una capacità di racconto che digerisce ogni alienazione clownesca e la rende necessaria espressione della logica che vige nel suo universo.

Non ci si stupisca, dunque, se anche qui tutto è già accaduto, se il presente non è che un ritorno, se il flashback spiega quel che un dettaglio esprime chiaramente (Vera manichino impagliato che impaglia manichini + Vicente che alla prima inquadratura concessa impaglia manichini = ...), se la narrazione mima la coerenza classica ma subito incista il dubbio moderno sul punto di vista (sempre la scena dello stupro), se il simbolismo metariflessivo è spavalda autoevidenza (il contemporaneo Dr. Frankenstein crea semplicemente una nuova apparenza, Almodovar lo fa con le sue ossessioni), se le immagini si confondono con altre immagini e la realtà è inseparabile dalla copia. Se tutto è lì, a galla, in superficie. Se anche i personaggi muovono da motivazioni legate alla visione: se Robert plasma Vera a immagine della moglie defunta, se Norma è ossessionata dall'immagine del suicidio fino a riproporla, se Vera si lascia trasportare dalla sua nuova apparenza, dalla nuova forma del suo corpo: tutto è pelle, in questo film, l'immagine è il movente. Poi, però, un'agnizione: a Vera appare la propria antica apparenza, fotografia che illumina i disegni alle pareti (che ritornano a simboleggiare qualcosa, non a essere mero segno), e che spinge la protagonista a sottrarsi dalla deriva delle immagini (grazie a un'immagine), rivendicando la propria essenza ("Sono Vicente") in un finale sublime, a tono sobrio e delicato, che certifica un pensiero militante (l'essere non dipende dal genere) e annuncia che questa pellicola è solo la pelle (magistrale: insieme semplificata e iperstratificata) che un'anima abita, la prigione in cui un autore si dibatte, schiavo delle immagini che ha prodotto (non per nulla a garanzia della propria essenza Vera porta comunque un apparire, quello del vestito che indossa). Dell'"aria che ti mantiene/ e le catene".

Facendo di autoriflessione narrazione, con la sincerità evidente che solo certi manieristi sanno avere (De Palma, qui, è un riferimento obbligato), Almodovar narra e riflette sul desiderio in forma puramente cinematografica, un desiderio che coincide letteralmente con immagini passate, con il cinema che fu, nello sviluppo di una trama che ha a che fare ossessivamente con lo sguardo, sintomo di un oculocentrismo retrò, cocciutamente fuori dal tempo. Il cinema di Almodovar, oggi, è questo: il dimenarsi di un autore chiuso in se stesso, capace di rinnovare la forma della crisi lavorando con pervicacia sulla propria maniera, sorprendendo mentre si conferma malinconico, esausto e inesauribile. E mentre l'algore del formalismo in abisso armonizza anche il kitsch più efferato (le due pseudo- violenze carnali, ancora, ad esempio), comprendiamo che pochi oggi parlano un linguaggio simile, sempre più asciutto e astratto, eppure privo di balbuzie, se non funzionali, se non calibrate all'efficienza del proprio intimo, onanista e straziante discorso.

Permane la sensazione di un autore che, avendo perso la direzione, ripesca estetiche passate curando formalisticamente la narrazione più epidermica: e/ma non poteva essere più appropriata, in questo senso, la personale rivisitazione di Occhi Senza Volto di Franju operata attraverso il romanzo “Tarantula” di Thierry Jonquet. Almodóvar come Cronenberg sfrutta l’algida follia dello scienziato, un ritrovato Antonio Banderas, per fare esperimenti sul/i genere/i umano/i mentre guarda al suo cinema anni novanta, cose come Tacchi a Spillo e Légami!, opere dove, in strutture essenzialmente drammatiche, innestava vari vezzi irriverenti, figure, situazioni e atti grotteschi, per poi baloccarsi con volute iperboliche del racconto (qui c’è il flashback rivelatore): oggi non ha più il gusto della provocazione, preferisce prendersi relativamente sul serio in coordinate superficialmente crudeli, mentre l’occhio si incanta sulla creatività delle scenografie/location, dei costumi, delle composizioni plastiche.

Di Occhi Senza Volto non coglie/vuole cogliere l’incedere surreale, il senso di favola sinistra e stregata, tantomeno l’analisi dei confini fra Bene e Male (tutto è già oltre, post-moderno): resta l’anomalo approccio "scientifico" alle operazioni chirurgiche, con una neutralità (ma erotica) cronenberghiana che risolve i traumi familiari con i tagli sulla pelle (non a caso, da indurire), per odori freudiani. Tutto condito con l’amato mélo, Frankenstein e il cambio di sesso: la trama sirkiana, meno kitsch che debordante, conquista da subito, nel suo gioco fine (a se stesso) ma duro di ri-flessione teorica sulla cinematografia, sorta di Femme Fatale con voyeurismo autoreferenziale (quel maxi-schermo per osservare una vita cui si nega la vita). Si ha però nostalgia dell’autore che, nell’eccesso vitale, riusciva anche a infilare qualche considerazione meno disimpegnata. Basti pensare all’ugualmente gotico, feroce e sorprendente Carne Tremula: la pelle sul viso che Almodóvar indossa non cala mai, volutamente, per mostrare temi quali l’attrazione per la Morte, la follia d’Amore (anche per la Scienza), la crudeltà delle apparenze (quello stupro-non stupro in giardino) o i paralleli fra vittima e carnefice che adorano i manichini.