Recensione, Thriller

OMICIDIO IN DIRETTA

Titolo OriginaleSnake Eyes
NazioneU.S.A.
Anno Produzione1998
Genere
Durata99'
Sceneggiatura
Montaggio
Scenografia

TRAMA

Atlantic city. Durante un incontro di boxe qualcuno spara al Segretario della Difesa. I 14000 spettatori sono potenziali testimoni oculari. Un poliziotto corrotto, Rick Santoro, scoprirà il complotto internazionale che si cela dietro l’omicidio.

RECENSIONI

IL REGISTA

Hitchcock usato come un testo di grammatica, il linguaggio della tecnica e la tecnica del linguaggio, il virtuosismo insistito ed evidente, il piano sequenza, lo split screen, le inquadrature impossibili, la seduzione teorica, la fascinazione per il dispositivo di riproduzione audiovisiva in tutte le sue accezioni, il metacinema declinato in tutte le salse, la tematizzazione dello sguardo, della visione e del punto di vista, l’esplorazione del rapporto strategico/dialettico/ludico film-spettatore, il doppio, l’inganno, il travestimento, lo scambio e il ribaltamento di ruoli, la tendenza a disinteressarsi dell’impianto narrativo, trascurandone la solidità. Magari c’è anche dell’altro ma per chi scrive, Brian De Palma è soprattutto questo. E Snake Eyes è, esattamente, tutto questo: una vetta tra le sue opere più rappresentative, da consegnare ai posteri a imperitura memoria del Nostro, insieme a Le due sorelle, Vestito per uccidere, Blow Out e Body Double.

LA SCENEGGIATURA

Il film è scritto da David Koepp che all'epoca (1998), a Hollywood, se la spassava alla grande. Strapagato, aveva scritto 'grandi successi' come La morte ti fa bella, Jurassic Park, Il Mondo Perduto e, per restare a De Palma, Carlito's Way e Mission: Impossible. Ancora un paio di blockbuster (Panic Room, Spider-Man) e il suo shining si sarebbe esaurito tra regie così così (Secret Window) e script minori (Zathura). Ma tant'è. Difficile stabilire le reali, diciamo intrinseche, qualità del suo lavoro per Snake Eyes. Storia rivista e banalotta, dialoghi anodini, conclusione affrettata (e poco chiara), epilogo amaro(gnolo) ma consolatorio. Nelle mani di De Palma, però, il tutto è diventato efficacissimo, perfetto per far sbizzarrire il Re-gista e permettergli di sguazzare nel suo brodo di giuggiole (meta)cinamtografiche. Tanto ci basta.

GLI ATTORI

De Palma non passerà certo alla storia per la direzione degli attori. Non è quello il punto del suo cinema. O forse, non è quello il punto del nostro guardare il suo cinema. Il cast appare dunque asservito al film e non costituisce un valore aggiunto. Il che ci sembra inevitabile, parlando di un Cinema autosufficiente ed esibito. Abbiamo un Nicolas Cage tutto sommato corretto, appena prima che la chioma assumesse morfocromie berlusconiane. C’è un Gary Sinise ben utilizzato, nel senso che la sua espressività monocorde ben si adatta a un personaggio ambiguo, che deve in qualche modo nascondere con la freddezza la propria natura criminale. Una Carla Gugino in parte, declinata al sexy sano e inconsapevole. E c’è un contorno affidabile, a partire dal solito Luis Guzmàn per arrivare a Stan Shaw, che riesce a dotare il suo personaggio della giusta vena malinconica e arrendevole. Nulla di più, ma va benissimo così. Tanto, c’è il Film che si mangia tutto.

GLI ALTRI                         Il comparto tecnico è familiare, solido, a tratti lussuoso. Alla fotografia c'è il depalmiano doc Stephen H. Burum (Body Double, Gli Intoccabili, Raising Cain, Carlito's Way, Mission to Mars). Elegante, sinuoso e artificioso, il suo è uno stile perfetto per il cinema di De Palma, proprio per la sua evidenza, per il suo far sentire il dispositivo senza nasconderlo. Anzi. Al montaggio c'è un altro habitué, Bill Pankow (nove De Palma all'attivo), chiamato a un lavoro chirurgico di incastri per un film che fa del gioco di sguardi, delle integrazioni, della dialettica campo/controcampo/fuoricampo una delle sue ragion d'essere. Mentre per le musiche si va addirittura nell'arty di Sakamoto. Non si frigge con l'acqua, insomma.

IL FILM                           Il film. Che film. Un manuale di narrazione a base di specifico filmico, con la tenzone/tensione informativa tra spettatore e testo tutta giocata sull’organizzazione selettiva dello spazio e su una gestione strategica dei punti di vista e delle forme di sguardo fluttuanti e mutevoli. Oggettive, semisoggettive, soggettive pure e false soggettive dialogano incessantemente, si alternano, si trasformano e si confondono le une con le altre. Una vera palestra teorica che permette di stressare tutta la letteratura classica dedicata all’enunciazione filmica incentrata sullo spazio, lo sguardo, la visione. E quindi Gardies, Branigan, Casetti. Ma anche Bordwell o Gaudreault. Senza dimenticare l’ovvio substrato di riferimento (Genette) e naturalmente Metz. Penso soprattutto al Metz de L’enunciazione impersonale, al quale si può ricorrere come a un ricco e autorevole catalogo di luoghi enunciativi forti che sembrano davvero marc(hi)are Snake Eyes in lungo e in largo, senza soluzione di continuità. Col film che si mostra, si esibisce e si destruttura continuamente davanti ai nostri occhi. Mi asciugo gli occhi lucidi e procedo senz’altro. Convinto che l’unico modo per rendere giustizia al lavoro di De Palma sia osservarlo, smontarlo e analizzarlo nel dettaglio, senza fermarsi alle apparenze. E dunque, la progressione drammatica del film si dipana attraverso otto sezioni chiave dislocate in una struttura palindroma:

p.s. / r.v. / f. / f. / f. / f. / r.v. / p.s. (dove p.s.= piano sequenza, r.v.= registrazione video e f.= flashback)

Come si vede, e come si è già accennato, si tratta di tutti momenti cinematografici forti: i due piani sequenza posti in apertura e chiusura di pellicola, passaggi dal marcato contenuto autoriflessivo, con i personaggi che ricorrono alle tecnologie audiovisive, e classici luoghi enunciativi che raddoppiano e stratificano il film (i flashback).

IL PIANO SEQUENZA INIZIALE

Partiamo dall’inizio (col botto). Snake Eyes si apre con un tour de force tecnico: un articolato e mobilissimo (falso) piano-sequenza di 12’49’’. Questa prima, lunga inquadratura si rivela interessante oggetto di analisi per almeno quattro motivi: 1) fa del piano-sequenza un utilizzo che è in sostanziale antitesi con la nota concezione baziniana di Montaggio Proibito: “Quando l’essenziale di un avvenimento dipende da una presenza simultanea di due o più fattori dell’azione, il montaggio è proibito”.. Ebbene, nell’incipit di Snake Eyes i molti (ed essenziali) simultanei fattori in gioco, come vedremo, sono sì virtualmente contenuti in un lungo piano-sequenza, dunque “correttamente” (seguendo Bazin) sottratti al montaggio, ma risultano altresì sistematicamente esclusi dall’inquadratura, relegati fuoricampo o comunque materialmente esclusi dalla vista. Sarà, invece, proprio il montaggio successivo di quegli stessi fattori a fornire l’unica chiave di lettura possibile e a rendere dunque intelligibile l’avvenimento mostrato; 2) in coppia col piano-sequenza finale, che dota Snake Eyes di una struttura circolare, esplora di fatto le due principali modalità attuative del piano-sequenza stesso: mobilità estrema contrapposta all’inquadratura sostanzialmente fissa movimentata dalla profondità di campo e dalla carrellata ottica; 3) Esemplifica il rapporto ossequioso, più che citazionista, che De Palma instaura con Hitchcock. Il piano sequenza, si è già accennato, è falso. Ma in che modo è falsificato? A un certo punto, a inizio sequenza, squilla il cellulare di Ricky che inizia a camminare parlando al telefono. Due persone, inquadrate in piano medio, passano davanti alla cinepresa, poi il dettaglio su una giacca oscura l’inquadratura: c’è il primo evidente stacco che “falsifica” il piano sequenza. La sostanziale evidenza dello stacco e le sue modalità attuative non possono non far pensare ad una citazione, per così dire, tecnica (e non sarà l’unica) di Nodo alla gola. Hitchcock, come è noto, voleva realizzare con Nodo alla gola la figura temporale della scena facendo combaciare il tempo della Storia con quello del Racconto. Il film doveva dunque risolversi in un’unica inquadratura (un piano sequenza, per l’appunto) della durata di 1h e 45’, il che era impossibile a causa della limitata durata delle bobine. Hitchcock decise di risolvere il problema mascherando gli stacchi con primissimi piani sulle giacche dei personaggi che passavano davanti all’obiettivo della macchina da presa o zoomando fino al nero sulle pareti. De Palma ha fatto, curiosamente, la stessa cosa in Omicidio in diretta, con una differenza sostanziale: Hitchcock ha fatto di tutto per celare il trucco, De Palma lo ha reso evidente, nonostante i mezzi tecnici odierni a sua disposizione gli consentissero “camuffamenti di stacco” sicuramente più efficaci, così da rendere palese l’intenzionalità hitchcockiana. Passa qualche minuto e l’obiettivo della steadicam che segue Nicolas Cage, nel girare l’angolo per riprendere l’attore che corre giù per le scale mobili, passa vicinissimo alla parete: avanzando frame by frame è possibile notare uno stacco piuttosto netto, traccia evidente della seconda falsificazione. Il rimando tecnico, di nuovo, è a  Nodo alla gola di Hitchcock, in cui il Maestro inglese, come già accennato, probabilmente per diversificare le modalità di stacco rispetto ai consueti primissimi piani sulle giacche, è ricorso talvolta a delle ravvicinatissime zoomate sulle pareti. 4) costituisce l’estrema e in un certo senso definitiva esemplificazione di un modus operandi caro al regista americano: la costruzione di “scene matrici-originarie”. da smontare, analizzare e rimontare ad opera del personaggio principale (e, di riflesso, dello spettatore), spesso col sussidio di tecnologie audiovisive che rimandano inevitabilmente al dispositivo cinematografico.

Il piano sequenza inizia con un’oggettiva su una serie di schermi televisivi che introducono la storia. Una carrellata orizzontale e una reinquadratura, però, ci portano nel personaggio con una soggettiva metaforica che, di fatto, sancisce l’ancoraggio del punto di vista dello spettatore a quello del protagonista del film che, in quanto detective, è anche metafora della narrazione filmica e doppio traslato dello spettatore, con tutte le operazioni che allo spettatore/detective fanno capo (indagare, interpretare, decifrare indizi, ricostruire e riordinare storie). Da questo preciso istante inizia cioè l’indagine del detective Ricky Santoro e dello spettatore i quali, quasi sempre insieme, dovranno osservare, scoprire, cercare e decifrare indizi per ricostruire la storia (e il senso della storia) narrata nei primi 13’47’’ di pellicola (il piano sequenza iniziale più le 21 inquadrature successive). La steadycam segue il detective Ricky Santoro nei corridoi dell’Atlantic City Arena e ce lo mostra donnaiolo, corrotto e sbruffone. Giunti a bordo ring, iniziano le prime fluttuazioni nel sistema di identificazione cognitiva del film. Intanto, un movimento di macchina a sinistra e poi in avanti inquadra in primo piano l’agente del pugile Tyler, seduto accanto a Ricky, che ha una radiolina appoggiata all’orecchio destro, dalla quale sentiamo il radiocommento del match: Ricky non sembra farci caso né riconoscerlo (benché lo abbia visto pochi minuti prima) ma lo spettatore non può fare a meno di chiedersi il perché di quel primo piano apparentemente immotivato né di notare la stranezza della situazione (perché seguire l’incontro alla radio quando si è seduti in prima fila a bordo ring?). Kevin Dunne ha già fatto notare a Ricky Santoro la ragazza sexy seduta non lontano da loro, definendola “sospetta”. Verremo a sapere in seguito che anche la ragazza è coinvolta nel complotto e che quella a cui stiamo per assistere è solo una messinscena orchestrata da Dunne per ingannare lo stesso Ricky e per utilizzarlo a mo’ di alibi. Una rapidissima panoramica a destra ci mostra l’ideale controcampo di Dunne (inquadrato in primo piano accanto a Ricky) che sta guardando proprio nella direzione della ragazza la quale, con lo sguardo rivolto nella direzione dei due, accavalla le gambe in modo provocante; curiosamente, gli unici spettatori in quel momento siamo solo noi e lo stesso Kevin Dunne, non Ricky che ha gli occhi fissi sul ring e non sembra curarsi d’altro. Ce lo conferma la successiva, e altrettanto rapida, contropanoramica a sinistra che reinquadra Ricky Santoro e Kevin Dunne mostrandoceli esattamente come li avevamo lasciati, l’uno intento a guardare l’incontro, l’altro rivolto invece verso la ragazza. La messinscena, dunque, l’inganno (la ragazza finge di provocare Kevin Dunne per farlo allontanare dalla sua postazione di addetto alla sicurezza), in questo momento sta funzionando solo con lo spettatore, il cui sapere è dunque “superiore” e insieme “inferiore” a quello del personaggio; è interessante notare, infatti, come questo momentaneo passaggio da un regime di polarisation-personnage a uno di polarisation-spectateur sia non solo, di fatto, poco netto e comunque al confine con la polarisation-énonciateur (l’inquadratura frontale del volto di un Ricky Santoro attento e preoccupato, unita ai commenti della radio e alle reazioni del resto del pubblico, ci fa capire che sul ring sta avvenendo qualcosa di strano o comunque interessante e il controcampo sul ring ci viene però negato, il che ci fa avvertire nettamente che alcune informazioni a disposizione del personaggio ci vengono deliberatamente negate), ma assolutamente strategico nel suo duplice intento ingannatore: lo spettatore avverte, per la prima volta, il proprio sapere come superiore a quello del protagonista, ignaro però che quel surplus informativo è viziato dalla sua natura intenzionalmente depistante. Lo spettatore “ne sa” cioè “di più” rispetto al detective Ricky Santoro ma paradossalmente questo ipotetico vantaggio lo allontana dalla realtà dei fatti e lo rende più vulnerabile di quest’ultimo ai depistaggi successivi (primo fra tutti il flashback in soggettiva di Kevin Dunne, nel quale verrà falsamente ricostruito proprio il segmento narrativo in questione). Questo per dare solo un’idea della cura maniacale con cui è stata costruita la scena madre di Snake Eyes, oggetto diabolico e multiforme, disseminata di esche, rimandi, trappole e depistaggi. Un labirinto diegetico e visivo su cui sarà necessario tornare per l’intera durata del film.

IL CIRCUITO CHIUSO

Il primo ritorno alla scena madre, che poi dà il LA all’indagine vera e propria, viene fornito al detective (e per traslato a noi spettatori) da un sistema di telecamere a circuito chiuso che mostra il pugile Tyler andare al tappeto dopo un colpo andato a vuoto e poco prima dell’omicidio.  E l’indagine stessa verrà sostanzialmente conclusa grazie alla ripresa aerea di una videocamera che, di fatto, sgombra il campo da qualunque residuale dubbio sulla dinamica e sul “senso” degli avvenimenti. La tecnologia, cioè, gioca il ruolo determinante di potenziamento sensoriale per il protagonista-detective il quale, grazie proprio al “filtro magnificatore” dello sguardo tecnologicamente protesizzato, riesce a cogliere aspetti e implicazioni degli eventi guardati che a prima vista gli erano sfuggiti (benché letteralmente avvenuti sotto i suoi occhi). Notevoli precedenti di questo tipo di tematizzazione delle tecnologie audiovisive si trovano disseminati in gran parte della filmografia depalmiana, con la vetta esplicitante di Blow Out il cui discovery plot ripropone – ad attività sensoriali variate – l’intrigo di Blow Up.

IL FLASHBACK DI TYLER

Quindi arrivano i flashback. Il primo riguarda il pugile corrotto Lincoln Tyler. Ricky Santoro, una volta visionato il video dell’incontro, decide di andare a interrogare Tyler e, rimasto solo con lui, lo convince a confessare (gli dice del video che di fatto lo incastra), promettendogli anche di non rivelare la cosa a nessuno in cambio di $10500 (10000 dollari come rimborso dei soldi scommessi da Ricky su di lui più 500 dollari per aver disonorato il ring). Il pugile, visibilmente intristito e contrariato, si rammarica di aver perso il titolo dei pesi massimi e inizia il racconto. Racconto interessante non tanto da un punto di vista, diciamo, diegetico, quanto tecnico, perché confluisce e si interseca con il piano sequenza iniziale configurando, di fatto, l’incrocio complementare di due saperi soggettivi che finiscono per edificare il sapere (sempre più) oggettivo dello spettatore. Se infatti gran parte dei primi tredici minuti scarsi di pellicola possono configurarsi come una soggettiva metaforica nella quale guardiamo (e sappiamo) quello che sa Ricky (ossia: poco), qui il suo (nostro) sguardo/sapere soggettivo iniziale si incontra e si completa (almeno parzialmente) con quello di Tyler (e di nuovo “nostro”), altrettanto soggettivo: il nostro limitato sapere viene, insieme a quello di Ricky, di nuovo integrato e amplificato, stavolta da un ricordo umano (non meccanico come in precedenza), soggettivo da tutti i punti di vista ma comunque presentato come attendibile.

IL FLASHBACK DI DUNNE

E' la volta del secondo flashback, che poi si tratta di un depistaggio. O quasi. Fino a un certo punto, infatti, si tratta di una soggettiva pura e inequivocabile di Kevin Dunne, vero deus ex machina del complotto, che di nuovo si interseca col piano sequenza iniziale senza contraddirlo. C'è però un'inquadratura importante che rimescola tutte le carte in tavola e rompe l'equilibrio: un'inquadratura oggettiva mostra le corde del ring in primo piano, il pugile Tyler (inquadrato dalle spalle in su) che attraversa il ring barcollando e sullo sfondo, in campo lungo, la ragazza inseguita da Kevin Dunne che sale le scale. L'inquadratura, seppure relativamente breve (circa 6 secondi), concede un tempo di lettura sufficiente per registrare un dettaglio importante, ossia la ragazza col tailleur bianco e la parrucca bionda (quella stessa ragazza che verrà colpita al braccio e si darà alla fuga) che, in cima alle gradinate, con fare furtivo si nasconde dietro uno steward non lontano dal luogo dell'inseguimento. L'inquadratura in questione, che abbiamo già provvisoriamente definito 'oggettiva', non sembra in effetti riconducibile allo sguardo di un personaggio ma appare tuttavia marcata da una prospettiva di sguardo e un posizionamento della cinepresa inusuali, che non danno comunque una visione d'insieme esaustiva e soddisfacente a causa anche di un ostacolo visivo (le corde del ring) che in qualche modo limita la visuale. Quest'unica intromissione oggettiva (o diversamente soggettiva) nel flashback di Kevin Dunne, rappresenta anche l'ultimo frammento di 'verità' della sequenza, l'unico sottratto allo sguardo/racconto dello stesso Dunne, nonché l'unico importante indizio offerto allo spettatore in un contesto di verità conosciute (il racconto di Dunne fino a quel momento è veritiero ma già noto perché già visto nel piano sequenza iniziale) e di depistanti menzogne (il resto del flashback, da questo momento in poi). Non è certo un caso, dunque, che questa inquadratura segni una rottura nell'equilibrio visivo della sequenza (interrompe bruscamente il piano sequenza in soggettiva) e funga (retrospettivamente) da estremo spartiacque tra verità e menzogna: lo spettatore è messo in guardia dal fatto che 'i percorsi dell'enunciatore e del narratore, p'er usare un'espressione casettiana, cessano per un attimo di incastrarsi e sovrapporsi; si insinua cioè il dubbio che il narratore delegato (Dunne) venga in qualche modo delegittimato da 'chi muove l'intero gioco', il quale decide di intromettersi platealmente nel racconto del primo, quasi in prima persona, 'da personaggio', per togliergli credibilità. Si noti infine che l'inquadratura in questione, con tutti i dubbi e le perplessità che solleva riguardo alla credibilità di Dunne, riposiziona lo spettatore in una condizione informativa avvantaggiata rispetto a quella del personaggio (Ricky) che invece non ha motivo, per ora, di dubitare del suo amico Kevin e continua a ritenerlo assolutamente fededegno. Tutta la seconda parte della sequenza sembra comunque strutturata per suscitare nello spettatore indecisione e sospensione sullo statuto di veridicità da assegnare agli eventi mostrati: se da un lato, infatti, il prolungato piano sequenza in soggettiva finisce per dotare le immagini di un'aura posticcia e artificiosa (effetto Lady in the lake) che poco giova alla 'credibilità', dall'altra ci sono delle, invero brevissime, digressioni su particolari poco significativi che sembrano voler rafforzare 'l'effetto verità' del racconto di Dunne (si veda l'improvviso e immotivato passaggio della coppia per il corridoio, seguita dallo sguardo di Dunne/brusco movimento di macchina). La cosa certa, comunque, è che l'inganno di Dunne ci coinvolge, come spettatori, per una manciata di secondi: il tempo di vedere lo stesso Dunne congedarsi da Ricky e andare ad uccidere due dei suoi complici (la rossa e l'uomo del segnale). Tale episodio segna l'ultima forte discrepanza informativa tra personaggio e spettatore in favore di quest'ultimo, il che permetterà a De Palma, grazie alla nuova distribuzione dei saperi tutta a favore dello spettatore rispetto al personaggio, non solo di prodursi poco dopo in una delle sue tipiche sequenze di suspense (l'inseguimento parallelo di Kevin  Dunne e Ricky Santoro, ai danni della ragazza, lungo i corridoi dell'albergo), costruita sulla forma più paradigmatica della suspense filmica classica, quella che Pérez definisce distorsione spazio-temporale (montaggio alternato), ma di dotare di un plusvalore bivalente di suspense anche il flashback di Julia.

IL FLASHBACK DI JULIA

Quello di Julia è il flashback che segna la fine dell’indagine. Si chiariscono, infatti, le modalità di attuazione del piano di Dunne per uccidere il Segretario della Difesa e il tutto si carica di una duplice suspense: da un lato la tensione riguarda la volontà di capire “come sono andate realmente le cose”, dall’altro c’è la curiosità di vedere il proprio alter ego filmico, il detective, venire a capo della situazione. De Palma esaudirà entrambi i desideri, mantenendo però un minimo scarto informativo tra spettatore e personaggio, scarto necessario e sufficiente a una dilazione ultima e minima della definitiva risoluzione dell’intreccio. Tale flashback ha una struttura piuttosto complessa. La prima parte mostra eventi non nuovi per lo spettatore, compreso l’atto di Julia di nascondersi dietro l’uscita di sicurezza (come già visto, l’inquadratura chiave, perché di rottura, del flashback di Dunne). Poi, arriva la tredicesima inquadratura del flashback che, insieme alla quindicesima, cambia tutto: Dunne sta complottando coi suoi complici e si sta mettendo d’accordo con l’attentatore. E’ lui il vero colpevole, artefice di tutto. Quindi, c’è uno slittamento e poi uno sdoppiamento di focalizzazione grazie allo split screen: sulla destra dello schermo, prosegue il flashback soggettivo di Julia, sulla sinistra il racconto oggettivo di come si sono svolti i fatti. Ma non è finita qui, perché lo split screen si interrompe e si ritorna alla parte finale del flashback di Dunne, preceduta dall’ideale controcampo della sua soggettiva (lo vediamo correre impugnando la pistola). E infine, torna lo split screen, con l’immagine di Ricky sulla sinistra e quelle che potrebbero le sue supposizioni/ricostruzioni dei fatti sulla destra. Questo semplificando molto. Ma molto. Solo per dire che, ecco, l’utilizzo dello split screen (così come di altre risorse filmiche forti) sarà sì sfoggio di competenza cinematica da parte di De Palma. Ma non c’è niente di vuoto, di gratuito. Sono momenti metadiscorsivi ma anche discorsivi, con cui costruire e risolvere l’accumulo di suspense, riordinare le tessere del mosaico narrativo, ridistribuire e consolidare i saperi in campo. E passare il testimone all’ultimo frazionista, Ricky Santoro, ché lo spettatore la sua indagine l’ha conclusa ed è ormai, appunto, solo “spettatore” dell’indagine del detective.

IL FLASHBACK DI RICKY

Lo schema, ormai, è noto: vengono riproposti alla lettera spezzoni già visti intercalandoli con inserti (anche cinematograficamente) complementari. Si riparte da Ricky a bordo ring, ma stavolta i controcampi sistematicamente negati dal piano sequenza iniziale ci vengono gentilmente concessi. Tanto non c’è più nulla da nascondere. Fino all’inquadratura finale, l’incontro di sguardi tra quello di Ricky e quello meccanico dell’Occhio Volante Gravità Zero, una videocamera/dirigibile che ha ripreso i fatti da un pdv esaustivo e privilegiato. Lo sguardo umano di Ricky è stato incapace di cogliere la realtà nella sua pienezza e allora chiede soccorso, come ha già fatto all’inizio dell’indagine, a uno sguardo tecnologico. Cinemaotgrafico. E magrittiano (l’occhio è il Falso Specchio del pittore belga): “Il visibile può essere nascosto ma ciò che è invisibile non nasconde nulla: può essere conosciuto o ignorato, nient’altro. Non c’è motivo di attribuire all’invisibile più importanza che al visibile, né il contrario” (René Magritte).

L'OCCHIO VOLANTE GRAVITA' ZERO

L’indagine si chiude dunque dove era inziata, la cabina di regia dell’Arena, e come era iniziata, visionando una videoregistrazione. La videocamera volante telecomandata ha ripreso tutto, non ci sono dubbi: Ricky vede Kevin Dunne nascosto che impugna una pistola e che aspetta gli spari dell’attentatore per sparargli – e ucciderlo – a sua volta. La riproduzione tecnologica della realtà è stata dunque l’unica attendibile, definitiva, vera. Detto in altri termini, ha vinto il Cinema. Ma con De Palma, vince sempre il Cinema. Anche se il film non finisce qui. C’è quel finale un po’ raffazzonato, con l’inseguimento Ricky – Julia – Dunne (e il “suicidio” di quest’ultimo), del quale ci importa il giusto, ma c’è soprattutto l’estremo regalo che Brian fa al suo pubblico, il piano sequenza finale, che chiude la perfetta, palindroma circolarità di Snake Eyes.

IL PIANO SEQUENZA FINALE

E’ un piano sequenza di sette minuti e trentotto secondi, giocato su tre momenti: 1) Visione d’insieme dell’ambiente (panoramica di 180 gradi su spiaggia, Casino e Powell Millennium); 2) Dialogo tra Julia e Ricky, di carattere riepilogativo: Ricky passerà un po’ di tempo in prigione, si è riconvertito a “eroe” grazie a Julia, con la quale si prospetta un’ipotesi di futura love story; 3) Lento movimento combinato (carrello + zoom) su alcuni operai a lavoro che stanno issando una colonna per la costruzione della facciata del Powell Millennium. La sequenza si chiude sul particolare della mano di un operaio appoggiata sulla colonna, la mano si sposta e scopre un rubino rettangolare che brilla improvvisamente, in concomitanza con l’apparizione della scritta “The End”. Le modalità attuative di questo piano sequenza finale, si diceva in apertura, lo pongono in sostanziale ma complementare antitesi col piano sequenza iniziale: tanto uno si presenta come mobilissimo e articolato su complessi movimenti di macchina, tanto l’altro è invece costruito sulla profondità di campo e una lentissima carrellata ottica. Inoltre, se il piano sequenza iniziale ingabbiava il momento cruciale del film in un’unica inquadratura, dando l’impressione di dire tutto, quello finale sembra al contrario un’appendice poco significativa, un ultimo sussulto di esibizionismo tecnico di De Palma che decide di premiare lo spettatore cinefilo e appassionato, quello che non abbandona la sala prima della fine dei titoli di coda, con un gioiello incastonato nell’ultimo fotogramma. A ben guardare, però, il piano sequenza iniziale sembra dire tutto mentre, in realtà, dice e mostra ben poco, giocando col controcampo negato e col fuori campo da ipotizzare. Allo stesso modo, il piano sequenza finale non è così pleonastico come sembra a prima vista. Seeing is deceiving, recitava la frase di lancio.

La migliore delle collaborazioni con lo sceneggiatore David Koepp (Carlito’s Way, Mission: Impossible), per l’ennesimo, magistrale gioco di geometrie di Brian De Palma: apre con un (finto) piano sequenza di tredici minuti e con un preciso punto di vista sul racconto per, poi, ricercare altre angolazioni nel ricostruire la verità non vista (la miopia della protagonista: mettere a fuoco l’inganno delle immagini che, però, sono anche l’unica finestra sulla realtà). Nicolas Cage entra in campo come esagitato bullo alla Scarface ed è la pedina voyeuristica del regista: come John Travolta in Blow Out, setaccia gli indizi fra videoregistrazioni delle telecamere, testimonianze (che sono flashback in soggettiva) e immagini personali che scorrono nella memoria. Come esercizio di stile, nella sua compiutezza, il film supera Casinò di Martin Scorsese ma, come Rashomon, non è fine a se stesso ma propedeutico al tema depalmiano dell’impuro che deve redimersi mentre fuori infuria l’uragano del Giudizio Universale. È il re della fogna di una città corrotta (la ‘Sin City’ della canzone di chiusura di Meredith Brooks) che tutto ammorba (il pugile), ad eccezione di un’ingenua scienziata che, infine, sarà lo specchio per mondare i peccati. Una città di finzione dove la verità, paradossalmente, potrebbe rimanere impressa solo su di un nastro magnetico. Teoria (riflessione sull’immagine) ma, soprattutto, azione in un teso thriller politico antimilitarista giocato su due enormi interni (lo stadio della boxe, il casinò) con maestria di dettagli, un memorabile carrello dall’alto sulle stanze d’albergo, vari simbolismi (il centone insanguinato, il rubino dopo i titoli di coda che rappresenta il “faro” dei pirati di cui parla la leggenda). Peccato per la conclusione, fra immotivata apparizione di una polizia consapevole (“Sappiamo lei chi è!”) ed epilogo allegro.