TRAMA
[Film non uscito nelle sale italiane] William Keane sta disperatamente cercando la sua figlioletta perduta al capolinea degli autobus. L’uomo ha evidenti problemi mentali. Sei mesi dopo William sta facendo i conti con la realtà di non avere (più?) una figlia.
RECENSIONI
Dopo Clean, shaven, debutto acerbo ma promettente, dopo Claire Dolan, opera già adulta e convincente, Lodge Kerrigan mette a fuoco tutti gli elementi che hanno contraddistinto la sua produzione (alla quale va aggiunto In God's hands del 2002 che non ha mai visto la luce per un incidente di laboratorio, occorso durante la lavorazione del negativo), sfrutta a fondo la raggiunta sicurezza stilistica, calibra come mai la scrittura e firma il lavoro della raggiunta maturità. Ancora una figura solitaria al centro della pellicola, ancora un personaggio ai margini che tenta di ritagliarsi uno spazio normale nella società, in una narrazione in prima persona in cui Kerrigan fa di William il motore visibile di tutti gli avvenimenti che vediamo accadere: Keane ha perso una figlia, forse; o forse no; è un borderline interessato a Lynn, ma il fatto che la donna abbia una figlia della stessa età di quella che l'uomo dice di aver perduto può essere stata l’autentica spinta ad avvicinarsi a lei. Ancora un passato solo supposto o suggerito (William Keane come Peter Winters di Clean, shaven alla ricerca di una figlia) quello che tormenta il protagonista, un filo trasparente, che a volte s’intravede scorrere, a legare le immagini (alcuni sprazzi di lucidità del protagonista sembrano indurci a credere che una figlia costui l’abbia avuta e che gli sia stata effettivamente rapita al capolinea degli autobus, laddove la prima concitatissima scena del film era ambientata).
Kerrigan non sbaglia nulla: non forza mai il narrato ricorrendo a una scrittura appuntita di rara asciuttezza; scansa la spiegazione fasulla come fosse un morbo (anche il monologo nella camera dalbergo non suona banalmente esplicativo, ma perfettamente coerente con il disegno di un personaggio alla ricerca di se stesso e che sembra, con quella sorta di autoidentificazione, puntellare alcune certezze); fa dello spettatore un osservatore pieno di domande, attaccato al fotogramma e allazione nel suo svolgersi, sperduto e confuso come il protagonista; asseconda un registro iperrealista di scarna efficacia ricorrendo al montaggio in macchina e a lunghi piani sequenza con camera a mano, abolendo, in odor di Cassavetes, quanto più è possibile scenografia e décor posticcio; bandisce le musiche di commento e avvolge il girovagare del suo protagonista in una patina di continua, a tratti soffocante, tensione (la sequenza finale, in cui Keane porta Kira alla stazione dei pullman e nella quale sembra quasi voler ricostruire, per poi sovvertire negli esiti, la scena primaria della sparizione della figlia, è di purissima ansia).
Così il regista: alla fine del film Keane si ritrova ad essere, fragilmente, in pace con se stesso. Per sopravvivere, nella nostra società, dobbiamo vivere con i paraocchi. Usciamo in strada confidando nel mondo esterno, pensando che abbiamo lopportunità di vivere la nostra vita, che non saremo attaccati, che siamo protetti da ciò che può sconvolgere la nostra esistenza. Keane ha avuto la sfortuna di vivere questa tragedia, e non penso si rimetterà mai, né che Kira possa essere per lui una forma di redenzione. Sa che sarà di nuovo solo, che non la rivedrà più, ma si rende conto che ha avuto un attimo di tregua.
Prodotto da Steven Soderbergh, interpretato magnificamente da attori incoraggiati a improvvisare, Keane è la conferma della considerevole personalità di un regista che, come molti esponenti del cinema indipendente americano (basti pensare ad Hal Hartley), porta avanti il suo discorso autoriale con lucida dedizione, nonostante le difficoltà distributive (il successivo Rebecca H., presentato al Certain Regard cannense, vedrà la luce solo nel 2010, sei anni dopo Keane).
