Docudrama, Recensione

DEATH IN THE LAND OF ENCANTOS

TRAMA

30 dicembre 2006, Bicol. Un maremoto provocato dal tifone Reming e dal vulcano Mayon annega nel fango migliaia di filippini. Benjamin Agusan, poeta autoesiliatosi in Russia, torna nel paese natale per cercare i cadaveri dei suoi cari.

RECENSIONI

9 ore: il colossale dramma di Lav Diaz dura esattamente il tempo impiegato dal tifone Reming per seppellire nel fango migliaia di persone. Recatosi nella regione colpita dalla catastrofe con l'intenzione di documentarne rovine e testimonianze, Diaz stravolge giorno dopo giorno il progetto originario, strutturandolo in fiction improvvisata e legando al footage documentario una costellazione minima di storie e personaggi. Nell'intreccio tra le interviste ai superstiti e il tragico nostos di Benjamin Agusan (poeta di chiara fama, ritornato in patria per salutare i propri morti), il racconto di un popolo falcidiato dalla catastrofe evolve in epica della disperazione, il sottotesto politico si sviluppa in dedalo da incubo e lo spazio-tempo si disfa pian piano, allentato e smembrato in pianisequenza interminabili, tra loro (s)legati come tessere di un mosaico incompleto. Lav Diaz, filmmaker, musicista e poeta filippino, è uno dei maggiori cineasti del nostro tempo [*]. I suoi lunghissimometraggi, varianti da un minimo di 5 ore (Batang West Side) ad un massimo di 11 (Evolution of a Filipino Family), sono brucianti meditazioni esistenziali, elaborazioni di lutti collettivi in forma di sconfinati video-mausolei. Death in the land of Encantos, vincitore della sezione Orizzonti al festival di Venezia, s'interroga come altre opere del regista sulla duplicità di una natura al contempo maestosa e crudele, vagheggia un'impossibile cura al dolore umano e riflette sul ruolo dell'artista al tempo di cataclismi e repressioni politiche, vicino a Tarkovskij nella causa sacrificale dell'ego creatore. Se gli ultimi due temi saranno portati a sublime compimento nel capolavoro Melancholia, l'opera del 2007 si sofferma in particolare sul primo aspetto, leggendo nel vulcano Mayon (meraviglia paesaggistica corresponsabile del maremoto) il simbolo dell'(auto)annientamento di un intero popolo, schiavo di uno Stato reticente e sanguinario. Diaz si scaglia da sempre contro l'apatia e il cinismo dei connazionali, fatalisti per cultura e sto(r)icamente proni a ogni schiavitù, possa essere esogena (il colonialismo spagnolo e americano) o endogena (la dittatura di Marcos e successori), denunciando con estetica disadorna e sguardo ostinato le colpe e le violenze di Stato. Mentre gli aiuti governativi tardano ad arrivare e gli squadroni della morte perseguitano e torturano giornalisti e attivisti dissidenti, il Mayon, unico vulcano al mondo dal cono perfetto, resta per i Bicolanes una minaccia terribile e incombente, dal magnifico profilo silenzioso ancora colmo di lava letale. Lasciando cantare all'unisono le torrenziali pioggie monsoniche e i pianti incessanti, Diaz compone un requiem filmico a bassa risoluzione ma d'intensità lancinante, aggirandosi tra le baracche divelte e le macerie affettive, esplorando i detriti della devastazione e i paesaggi spettrali, mentre gli sconvolti personaggi sembrano vagare senza meta, rannicchiati su se stessi come a fingersi minerali, soli e abbandonati da qualunque Provvidenza (liquidata citando Tolstoj: Dio vede la verità, ma aspetta).

Del terribile il bello non è che il principio.

R. M. Rilke,Elegia Duinese I (cit. in esergo al film) 

 

[*]
 Dell'immagine-crampo 
(Te[le]ologia del digitale e ritorno al reale [isterico])

Come le altre opere lunghe di Diaz, anche Death in the land of Encantos è realizzato con mezzi semiamatoriali, applicando un digitale povero e spartano al servizio di un racconto generalmente realista e radicato nella referenzialità dei corpi e degli spazi filmati. Il fibrillante bianco e nero ne scarnifica le forme, mortificando la fotogenia dei dettagli e ossificando lo splendore compositivo dei quadri, ripresi con luci naturali e sonoro in presa diretta, tanto incuranti delle imperfezioni video e audio da permettere alle gocce di pioggia di restare sull'obiettivo per svariati minuti e all'invadente rumore di fondo di rendere pressochè inudibili i dialoghi. Tali storture, cicatrici dell'artificio video, non scoraggiano affatto il coinvolgimento (e l'empatia) spettatoriale, portati anzi a livelli quasi insostenibili grazie all'estrema durata delle sue opere (e delle inquadrature al loro interno), in grado di mutare il film in mondo e l'osservazione in esplorazione, riuscendo ad attivare, da un lato, la componente immersiva e sinestetica tipica del cinema postmoderno, e ripristinando, dall'altra, quella distanza e(ste)tica dello sguardo di cui Baudrillard aveva annunciato la fine - le inquiete soggettive dei personaggi, infatti, squarciano solo a tratti l'immobilità scultorea e solenne dei quadri, schiacciandone d'improvviso i campi lunghi e lunghissimi al ritmo della crescente follia di Agusan. Grazie alla vasta e stratificata orditura temporale dei suoi film, la fruizione continuativa arriva a concretare l'immagine-tempo in immagine-crampo, elevando l'ordinaria visione a totalizzante esperienza percettiva, in grado di assorbire completamente i sensi di chi vi (vuole) partecipa(re).

L'opera fuori-formato di Diaz è però estranea allo sfoggio virtuosista da cartografo borgesiano, poichè forma e contenuto sono saldati da una naturalezza poetica e una visceralità politica di rara veemenza. Se ai tempi dello smisurato Rapacità von Stroheim fu estromesso dal montaggio e allontanato come un pericoloso irresponsabile, ritenuto colpevole del massimo sacrilegio possibile in un'epoca dove l'identificazione tra tempo e denaro vale(va) come uno dei motti esemplari del sistema economico e politico dominante, tale ideale si è poi dissolto solo in parte sotto le mentite spoglie della simultaneità tardocapitalista [1], mantenendo inalterata l'ossessione del timing e la concezione del ritardo come fallimento (trovando i propri modelli ideali in registi-imprenditori come Spielberg e Lucas, sostanziali iniziatori - secondo Laurent Jullier - del cinema postmoderno). Ottant'anni dopo, Diaz torna a sfidare gli indiscussi standard dell'industria cinematografica non per titanismo demiurgico o hybris autoriale, ma per l'inconciliabilità tra la sua poetica militante (e accented) e le tradizionali catene rappresentative: il tempo stesso è considerato dal cineasta filippino come uno degli indelebili residui del colonialismo spagnolo, imposto con la forza in funzioni religiose e gerarchie lavorative ad un popolo sino ad allora abituato solo alla dimensione spaziale della Natura. Per liberarsi dal diktat temporale, Diaz pensa di appiattirlo a puro spazio, redimendone la durata [1] attraverso il ricorso a campi e piani sterminati (grazie a cui il paesaggio può imporsi e pervadere incontrastato), l'uso massivo del long take (cifra espressiva primaria), l'immobilismo scenico (tempi morti e interstizi drammatici), e una narrazione liquida e sfrangiata, incurante dei diversi piani di realtà (ricordi, allucinazioni, sogni).

Risulta così comprensibile come mai Diaz, appurata l'insostenibilità economica della pellicola, si sia affidato al digitale al punto da farne l'oggetto di una vera e propria liberation theology (ipse dixit), capace di affrancare i registi del Sud-Est asiatico dalla sudditanza creativa, economica e politica degli studios, di fatto aprendo la strada ad una delle new wave contemporanee più interessanti al mondo [2]. Come Pedro Costa, anche Diaz usa il digitale per plasmare una nuova forma di realismo rappresentativo, ibrido e innaturale, dove l'immagine sintetica tende a digradare dalla propria algoritmica vaghezza e falsità strutturale verso l'inaccessibile organicità analogica. Similmente al realismo traumatico diagnosticato da Hal Foster nel fondamentale Il ritorno del reale, il cinema di Diaz, nel suo carattere ectoplasmatico e atemporale, si dichiara postumo all'avvenuta decomposizione del reale, irrappresentabile se non come simulacro irrisolto e allucinato, rivelandosi Death in the Land of Encantos non solamente elaborazione di un lutto nazionale, ma lapide celebrante una perdita più generale, ovvero la possibilità del cinema (e dell'arte tutta) di tornare - dopo il sisma postmoderno che ne ha certificato la morte - a farsi specchio del mondo. Eppure, e qui sta il superamento definitivo, si tratta di epitaffio in divenire, all'inesausta ricerca di una rivoluzione estetica ancora possibile, teso a mostrare le diverse facce di una realtà poliprospettica e consapevolmente irriducibile ad un'unica cartografia filmica. Si tratta di un approccio al reale vertiginoso e labirintico, che sta al naturalismo classico come il realismo isterico di scrittori come Wallace e Vollmann è apparentato ai grandi narratori russi del diciannovesimo secolo, rielaborandone nel nuovo millennio il verbo realista e la viva tensione morale [3].

Non è un caso che in Death in the land of encantos Diaz citi apertamente Dostoevskij e Tolstoj (tra le sue massime influenze), riproponendo quelle stesse riflessioni esistenziali(ste) in una struttura postmoderna, proteiforme e spaesante, dentro e oltre il grumo tramico, frastagliato da ellissi e smottamenti che costringono il lettore/spettatore a riscrivere il testo/film per meglio comprendere e interpretare le immagini (prassi quantomai necessaria per sbrogliare l'intricato Evolution of a Filipino Family). La diegesi è nebulizzata come lo spazio-tempo in cui è scolpita, senza che ci sia differenza visibile tra personaggi e persone, vivi e morti, passato e presente, sogno e veglia, fiction e documentario: ogni piano convive e partecipa allo stesso flusso, secondo una disposizione fluviale ed egalitaria in cui convergono liberamente corpi filmici estranei (come i frammenti del precedente Heremias e gli scorci zagabresi di un horror incompiuto). Lo spazio rappresentato può farsi sì abitabile (come fece Wallace con la funhouse barthiana), ma solo dopo aver edotto -attraverso un'unione indissolubile di senso e sensazione - sulla portata umanistica e profondamente morale della proposta artistica. L'aspetto forse più rivoluzionario di Diaz risiede però nell'anomala storicità del suo cinema, ad un tempo frammentata e riassemblata in polifonia: alla (lyotardiana) messa in crisi del grande racconto unificante ed edificante (la Storia ufficiale, sgretolata in microstorie marginali e individuali) si accompagna difatti il tentativo di riportare al presente il dolore del passato per meglio comprenderlo e superarlo, integrandolo al continuum filmico senza filtri di sorta né avvertibili scarti ritmici o tonali - tutto convive nella medesima dilatazione spaziale, compresi i momenti in cui l'allucinato affresco sembra collassare su se stesso (i ricordi dell'infanzia di Benjamin, il fantasma della moglie, i dialoghi col torturatore - di cui peraltro non si accerta mai l'effettivo statuto di realtà) come se la questione non sia tanto quella di rileggere o di conservare il passato, ma di percepire la Storia come presente (e il presente come Storia). E' un doppio movimento ossimorico che coinvolge nuovamente la concezione del tempo, inteso sì come esperienza di dolore, da alleviare attraverso la sua conversione in spazio, ma anche come necessità da (ri)vivificare, bisogno di rendere tangibile e recuperabile nel presente la memoria storica (da lì la grafomania dell'ossessionato protagonista, da lì la chiusa sull'agonia in fieri, come un trauma riaperto per sanguinare di là dal film) [4]. Ecco perchè considero l'opera di Diaz un autentico miracolo, cinema d'urgenza lacerante in tempi di amnesia politica e nichilismo post-umano, capace di contenere in sé i più diversi regimi di scrittura e di rappresentazione (moderna, postmoderna, persino classica, a dire di Chantal Akerman), tesa a far collidere utopicamente tempo diegetico e tempo di fruizione in saggi sinora intentati, conscio della riduzione del mondo a favola nietzschiana ma ancora sensibile al reale, e ad esso rivolto.

[1] Dove, analogamente a quanto ravvisato da Frederic Jameson, il tempo pare essersi tanto accelerato da annullarsi in un'istantaneità senza più durata, fedele alla previsione foucaultiana secondo cui un processo inaugurato nel secolo scorso ha finito per sostituire all'idolo del tempo, ideale faro della società ottocentesca (e fordista), quello dispersivo e simultaneo dello spazio.

[2] Trattasi della pinoy new wave, una nuova scuola di registi filippini, perlopiù giovanissimi, che, sulle orme di Diaz e di Brillante Mendoza, fanno dalla sperimentazione formale e narrativa, della fiera esibizione del mezzo digitale e di una prospettiva radicalmente politica i propri cavalli di battaglia. Gli esponenti più noti, sovente acclamati dai maggiori festival di cinema, sono Raya Martin, Khavn (De La Cruz), John Torres e Roxlee.

[3] Come noto, la categoria di realismo isterico è un'etichetta coniata dal critico letterario James Woods a proposito di alcuni scrittori americani contemporanei, tra loro accomunati per la prosa massimalista e spesso enciclopedica (Wallace, Vollmann, e, in misura minore, Eggers, Franzen e Zadie Smith). Cfr. a questo proposito la distinzione wallaciana di big -R realism e little-r realism.

[4] Per un ulteriore esempio di questa tendenza, ormai diffusasi in buona parte del cosiddetto C.C.C. (contemplative contemporary cinema), rimando alla mia analisi di Post Mortem.