TRAMA
Mitchel, appena uscito di prigione, vuole allontanarsi dal sottobosco criminale. Viene assunto nella villa di Charlotte, giovane e splendida attrice che non esce mai di casa.
RECENSIONI
Esordio alla regia di William Monahan, London Boulevard è il passo naturale dello sceneggiatore di Boston: dopo aver firmato alcuni dei maggiori successi americani dellultimo decennio (The Departed di Scorsese, Le crociate e Nessuna verità di Ridley Scott), il passaggio dell'altra parte della barricata era ineludibile e continuerà con Becket nel 2012. Se il romanzo London Boulevard di Ken Bruen è apertamente ispirato a Sunset Boulevard, Monahan ha scelto di depurare la pellicola dai riferimenti al capolavoro di Wilder, limitandoli alla sola trama. Lo screenplayer offre quindi un viale del tramonto contemporaneo, ma si ispira ad altre circostanze: 'Ho amici e colleghi che vivono in stato d'assedio. Quando diventi famoso tutto ti colpisce, io mi sento circondato anche se sono solo uno sceneggiatore'. London Boulevard è il film inglese di un regista americano, girato in pellicola come scelta stilistica ('Volevo ricreare i film inglesi in technicolor degli anni '60/70'), che si presenta a metà tra gangster movie e confronto di caratteri virato in love story: se inizialmente la parabola di Mitchel ricorda il noir francese più classico (l'outsider criminale si innamora della preda, evitando che venga colpita da attività illegali), l'autentico 'asticcio' che si sviluppa nella seconda parte è radicato nella tradizione pulp americana e prelude alla 'strage'. Come prevedibile con Monahan, dunque, abbiamo materiale ad alta gradazione cinefila. Nel gioco delle citazioni possibili almeno due, con esiti opposti, valgono come esempio del modo di procedere: il riferimento sotterraneo a opere come Irreversible di Gaspar Noé ('Charlotte è la donna più stuprata del cinema europeo dopo Monica Bellucci'), citazione intelligente e integrata; il 'discorso del killer' prima di sparare, che si rifà al sermone pulpfictioniano di Winnfield, citazione gratuita e ruffiana per il grande pubblico.
Mitchel (Colin Farrell) vuole lasciare l’ambiente della piccola criminalità londinese. Occasione è l’offerta di Charlotte (Keira Knightley), diva assediata dai fotografi che lo assume come factotum. Inizia così a svilupparsi il tessuto narrativo/mediatico, con Mitchel all’interno della City, inseguito dai megaposter pubblicitari di Charlotte che iscrivono la sua figura nel paesaggio urbano. Dall’altra parte l’attrice che non vuole più recitare, umiliata da volgari paparazzi, lancia una sottile e implicita ironia sull’ex astro nascente di Keira, ormai affermato. La metafora si chiama recitazione: mentre la vera attrice ha scelto di costringersi in casa, il piccolo criminale viene chiamato ad “interpretare” un nuovo ruolo sociale che lo allontani dalla delinquenza. Il divario tra caratteri si riflette anche negli ambienti (la città di Mitchel/la villa di Charlotte): quando iniziano ad avvicinarsi, però, questi condividono lo stesso spazio (l’interno della villa) e addirittura occupano un terzo luogo a loro riservato (la casa di campagna). La Londra di Monahan è un melting pot bagnato nell’attualità, dalla presenza islamica nelle strade fino alla cronaca nera delle baby gang, che rivestono un ruolo fondamentale nell’intreccio; la casa della diva è un’architettura piena di anfratti oscuri, con personaggi che compaiono/scompaiono, adeguatamente governata dalla macchina da presa di Chris Menges.
Il tessuto è volutamente schematico come ogni script dell’autore (“Non faccio film per andare ai festival”), che trasmette la sua idea di puro intrattenimento popolare attraverso il cinema. In questo impianto, a ben vedere, alcuni squarci suonano oggettivamente sbrigativi: come la parentesi bucolica che innesca la relazione Mitchel/Charlotte, due-tre inquadrature veloci per scoccare la scintilla, che più di tutte rimarca l’inevitabile distanza americana dalla narrazione di stampo europeo (Monahan tenta una scena alla Joe Wright e, ovviamente, sbaglia). Anche il parco dei comprimari risulta spesso di prammatica, sembrando il regista non interessato alle figure in sé ma piuttosto alla loro collocazione (esempio: la sorella instabile di Mitchell, caratterizzata appena ma subito designata al ruolo di vittima). La mancanza di approfondimento narrativo è spesso riscattata dalla conduzione della regia: Monahan sa già il fatto suo e dimostra particolare abilità nello sfruttare il deja-vu (vedi il particolare dell’arma del delitto – un martello – per indicare l’avvenuto omicidio), culminando nello stilizzato duello finale, che fa il mezzo miracolo di una bellissima scena sull’abusato motivo della resa dei conti. Attori centrali: Farrell continua a non convincere pienamente, la Knightley lo sovrasta con una prova paranoica e lunare, Ben Chaplin è un diligente pesce piccolo, Ray Winstone fa il boss da stereotipo del genere. Ma su tutti, aldilà degli interpreti più quotati, è impossibile tralasciare l’esaltante esibizione di David Thewlis nei panni di Jordan, lo schizzatissimo assistente-killer della diva con un’inclinazione naturale per l’occultamento di cadavere. La cartuccia migliore resta comunque la soundtrack di Sergio Pizzorno, chitarrista e voce dei Kasabian, con il brano The Green Fairy che scatta a indorare la sequenza finale.
Insomma, London Boulevard ci consegna due cose: la notizia che Monahan non ha bisogno di un regista per fare un film; la conferma che lo sceneggiatore - paradossalmente – riesce meglio quando le intenzioni sono basse e chiaramente blockbuster (come Nessuna verità, come questo caso), rispetto all’ambizione smisurata del discorso sull’identità in The Departed. Un esordio che è un cocktail di “roba” già vista, ottimamente impaginata.