Carcerario, Grottesco

BRONSON

Titolo OriginaleBronson
NazioneGran Bretagna
Anno Produzione2008
Durata92'
Fotografia

TRAMA

Michael Peterson, meglio noto col fighting name “Charles Bronson”, è il detenuto più violento del Regno Unito. Ha passato trentaquattro anni in carcere, trenta dei quali in regime di isolamento. In rigoroso disordine cronologico, il film ripercorre la sua vicenda biografica da quando era in fasce a oggi.

RECENSIONI

Sollecitato dal produttore britannico Rupert Preston (suo vecchio amico e distributore dei suoi film nel Regno Unito), Nicolas Winding Refn accetta di dirigere Bronson, un film sul più famoso detenuto inglese di tutti i tempi, con un budget non esorbitante (un milione di dollari). Partendo da una sceneggiatura originale che cercava di psicanalizzare Bronson (e senza aver ottenuto il permesso di girare in un vero carcere), Refn riscrive lo script da cima a fondo reinventando lo spazio della prigione su un set artificiale e concependo una pellicola basata sui concetti complementari di incarcerazione e trasformazione. Il cineasta danese affronta il film senza sapere nulla di Peterson/Bronson (legge la sua biografia, ma, non avendo alcuna restrizione, ne prende immediatamente le distanze): nessun aspetto giudicante, politico o sociale nel suo approccio al personaggio.

Incardinata su un'impostazione teatrale (il protagonista si presenta al pubblico tramite un monologo), la nuova sceneggiatura si articola in tre parti o atti. Primo atto: Bronson recita su un palcoscenico di fronte a una platea indifferenziata. Il monologo, intervallato da immagini che visualizzano le tappe della sua vita, raffigura come il personaggio vuole essere percepito dagli altri. La mdp lo inquadra spesso in maniera frontale, sposando idealmente l'ottica degli spettatori. Secondo atto: i 69 giorni di libertà del protagonista. Paradossalmente Charlie si trova più a disagio negli spazi extracarcerari, vivendo amicizie e relazioni sentimentali con evidente imbarazzo e ritrovando la sua vera natura solo negli incontri clandestini di boxe. Terzo atto: punto di vista del pubblico. Bronson come performer.

Bronson, dunque, non è un biopic, ma un film sul concetto di trasformazione di un individuo in celebrità: lo studio di un personaggio visto dal'interno della sua mente, ma senza velleità psicoanalitiche (questo il motivo per cui la storia non è sviluppata progressivamente). Non interessato a realizzare una pellicola su Charlie Bronson (o Micheal Peterson), il cineasta danese approfondisce invece gli aspetti espressivi della sua personalità: un artista che si esibisce attraverso la violenza per ottenere fama ('Il mio nome è Charles Bronson e per tutta la mia vita ho voluto essere famoso' sono le sue prime parole). Identificando arte e violenza, Bronson diventa il veicolo ideale per esprimere la poetica cinematografica di Refn: 'Art is an act of violence' è una delle sue dichiarazioni più note.

Abbondantemente rigirato (circa il 40% del film) poiché Refn si è accorto che molte cose non andavano (soprattutto il finale), Bronson si avvale dell'impressionante prova di Tom Hardy (difficile non pensare al Daniel Day Lewis di Gangs of New York) e di un soundtrack poderosamente eclettico (da Verdi ai Pet Shop Boys, da Wagner ai Walker Brothers, da Delibes ai New Order). Dal punto di vista stilistico è indubbio che Bronson sia disseminato di suggestioni cinefile: i più hanno chiamato in causa Arancia meccanica (che, invero, si indovina qua e là senza esagerare) e qualche commentatore più avvertito ha fatto il nome di Jarman (i tableaux vivants del prefinale lo ricordano effettivamente), ma il riferimento più sorprendente viene dallo stesso Refn che, tra civetteria e candore, ha confessato di aver rubato quasi tutto al Kenneth Anger di Inauguration of the Pleasure Dome e Scorpio Rising. Innegabili, ma non particolarmente significative, le analogie con Chopper (2000), lungometraggio d'esordio di Andrew Dominik.

Sbarcato in Inghilterra con un film Tv su Miss Marple, Refn sorprende (non l’Italia, che lo ha distribuito solo nel 2011) con quest’opera grottesca ed eccentrica, una fantasia musicale (la bizzarra colonna sonora accosta Verdi al Pop) sulla vita del (tuttora) prigioniero inglese più famoso di tutti i tempi. Rispetto al suo Pusher – l’Inizio, rinuncia al naturalismo della messinscena ma non all’assunto che i criminali non vanno stigmatizzati negativamente: sono “vittime” di “cul de sac” contingenti o di una predisposizione congenita (la scena in cui, rilasciato, Bronson s’innamora e scopre un lato tenero, la dice lunga sulle simpatie del regista). Bronson parla in macchina da presa, racconta ad una platea ideale gli episodi salienti/violenti, all’insegna di un pianificato masochismo che, verso la fine, dispiega il proprio senso reale (secondo Refn), cioè creativo, di chi fa della propria esistenza un’opera d’arte: forse non sempre in modo cosciente, forse pilotato da una tara genetica da Assassini Nati, forse con l’ingenuità del bambino che vuole solo attirare l’attenzione su di sé finendo, paradossalmente, sempre in isolamento. Citando Kubrick e Alan Parker senza eguagliarli (Arancia Meccanica: Bronson si dipinge il corpo e, a suon di musica, fa del proprio prigioniero un’opera d’arte; Pink Floyd – The Wall: l’improvvisa apparizione dei fumetti animati di Bronson), il regista sorprende alternando commedia, dramma feroce, biopic, caricatura e musical.