Come di consueto, la seconda parte dello speciale sui video dell’anno è dedicata alla top 20, con tutti gli addentellati (artista, regista etc) e chiusura su lunghissimi titoli di coda.
Buona lettura, buona visione.
#20
Live Again (The Chemical Brothers feat. Halo Maud)
diretto da Dom & Nic
Alla decima collaborazione, Dom & Nic si confermano l’immagine video ideale per i flussi sonori dei Chemical Brothers. Qui una ragazza, dormiente nella sua roulotte, prigioniera di una spirale di sogni e falsi risvegli, constata il mutare dei contesti onirici (i più fantasiosi) danzandoci sopra. Non sposterà nulla e non raggiungerà le visualizzazioni che sul Tubo hanno i classici del duo inglese, ma Live Again resta (come Wide Open del 2015) l’esempio pregnante di come si mette in scena un corpo danzante, facendo registicamente percepire tanto il senso della situazione rappresentata quanto la tensione autentica sprigionata dalla presenza fisica della performer. Miracoli della old school.
Per Skipping Like A Stone i Chem Bros si appoggiano invece a una produzione CANADA diretta dal duo Pensacola: è un narrativo che asseconda alla lettera il titolo del brano e che, se vanta un discreto impatto visivo, concettualmente mi pare poca cosa, creando aspettative che si sgonfiano presto. Per Goodbye il duo si affida ai fedeli Smith & Lyall per una love story riletta secondo i consueti codici da visual.
#19
Telephones 4 Eyes (Hak Baker)
diretto da Hugh Mulhern
Horror mentale e ossessivo, con uso efficace di animazione, computer grafica e intelligenza artificiale, un ritmo frenetico (montaggio pregevole) e molte invenzioni – in bilico tra il comic supereroico, il solito Cronenberg e qualcosa di Tsukamoto – volte a dare forma e sostanza alle suggestioni testuali che adombrano una critica al bombardamento di informazioni e contenuti di cui siamo vittime quotidianamente.
Da Baker e Mulhern (di cui ricordiamo il sodalizio con i Fountaine DC) quest’anno anche l’ideale seguito Doolally che conferma approccio, tecnica, contenuti paranoidi.
#18
We’ve Been Here Before (Chinese Man feat. Stogie T, Isadora & Miscellaneous)
diretto da Jeremi Durand
Un bellissimo mystery, fondato sulla logica della ripetitività quotidiana, della routine lavorativa nella quale è immerso il guardiano protagonista e delle minime variazioni che essa presenta, come glitch, visioni fulminee nella ottundente invariabilità dei turni, dominando il pattern del déjà-vu.
Di Durand sta per uscire il primo film.
#17
Yum (slowthai)
diretto da Crowns & Owls
Ecco un video musicale che restituisce il tono e il senso del brano musicale, esperienza tra le più angoscianti nel settore nel 2023. Sequela di visioni da incubo, tentativo di riemergere dalla dipendenza, inevitabile scivolare nel baratro, il retrogusto del trip visionario è di amarissima ironia. Le immagini ingabbiano tutto: l’ansia, il panico, la disperazione. Crowns & Owls (già al servizio di Slowthai – il non meno inquietante Inglorious – anche per artwork e foto) quest’anno in evidenza anche con sAy sOMETHINg di Lil Yachty, in cui tutto il loro potenziale allucinatorio e paranoico volge in commedia rosa-nero, ancora una volta visivamente potente.
# 16
Seaforth (King Krule)
diretto da Jocelyn Anquetil
King Krule torna a Jocelyn Anquetil con un lavoro fondato su un’incessante spirale di situazioni oniriche. Tra evocazioni di immaginari da clip anni 80, schermi televisivi inscritti in altre cornici, signori magrittiani a garantire surrealtà, creature che si polverizzano, il video rende incerto fino all’ultimo chi sia il sognato (King Krule?) e chi il sognatore (un cane?).
Dalla regista anche un altro must della stagione, quel Dancer degli Idles che frazionando i punti di vista, mostra la possessione danzereccia di una serie di personaggi sulle selvagge note dei performanti (e danzanti!) Idles, ancora una volta guardando al vintage (l’effetto echo) e ammiccando, sottotraccia, a una narrazione.
Tornando invece a King Krule segnalerei anche il bianco e nero del lucidissimo onirismo (aridaje) di If Only It Was Warmth in cui il britannico si autodirige.
#15
You Make Me Sick! (Ashnikko)
diretto da Saam Farahmand
Torna Farahmand e lascia un segno profondo, con un video performance di grande impatto che (ipse dixit) parla della scoperta della tossicità. Se l’inizio si affida all’ipnotico primo piano di Ashnikko, impreziosito da fulminei ritocchi in post (mi ricorda molto la Björk di Hunter), lo sviluppo prevede una coreografia che collega artista e corpo di ballo secondo logiche biomeccaniche. Ma quello che colpisce (e funziona) sono i quadri scelti che, costringendo l’azione in spazi sempre molto angusti, ne enfatizzano l’effetto e la rendono esplosiva. Serie A.
#14
Ice Slippin (Omar Apollo)
diretto da rubberband.
È un po’ di anni che parliamo di loro (all’epoca persino i Cahiers ne scrissero): Jason Filmore Sondock e Simon Davis sono qualcosa di più di semplici videomaker, sono sperimentatori e visual artist a tutto tondo, attaccati all’analogico, a un concetto di video molto materico, quasi tangibile, lontano da eleganti astrattezze o inafferrabili intellettualismi. Nonostante l’alto profilo dei loro lavori, stante il loro potente impatto, hanno trovato terreno fertile anche nella pubblicità di grandi brand e quest’anno sono stati particolarmente prolifici nel videoclip. A spaccare soprattutto questo strepitoso lavoro per Omar Apollo che, a un set performativo austero e metaforico (una rinascita), affianca una strabiliante rielaborazione di immagini di repertorio, riconvertite con un estro e un’inventiva che lascia sbalorditi. Nella varietà di formati e soluzioni (un altro video multiformato che colpisce nell’annata è Often di Jayo diretto da Waxxwork), non si ha mai l’impressione di una confusione o di una gratuità (il pensiero va ai BRTHR più paraculi), al contrario, di una visione strutturata e lucidissima che serve a dovere il concetto di fondo, quello di raccontare un pezzo di storia personale, un incidente quasi mortale subito dall’artista e il suo percorso di recupero fisico e morale. È proprio questo pensare la tecnica e la produzione in funzione del concetto a fare la differenza.
Dal duo anche Mama’s Boy (Dominic Fike), pianosequenza che disegna in medias res un horror di cui non si rivelano le coordinate sottintendendo che potrebbe trattarsi di una deformazione percettiva soggettiva. Il punto sta proprio in questa indeterminatezza: è nella tensione e nel ritmo che le immagini contengono il loro senso. Top.
E due video per Bakar: in Alive! l’artista molla l’auto in mezzo al traffico di Piccadilly Circus e improvvisa la performance tra la folla londinese, attonita e incuriosita; in I’m Done la camera fissa si trova in una stanza che si scopre mobile e che circola tra le strade di Londra: in essa Bakar si esibisce per incontrare infine i suoi fan.
#13
Cool With You Side A – Side B (NewJeans)
diretti da Wooseok Shin
Dittico narrativo, rarefatto e insinuante, lontano dalle acrobazie tecniche evidenti e dalle realizzazioni effettate che contraddistinguono i lavori più in vista dei registi connazionali. Una presenza misteriosa, invisibile si invaghisce di un ragazzo, lo contempla, lo pedina. Il perché affonda le sue radici nel passato. Racconto di una laconicità che si scioglie nella seconda parte, tutto consegnato ad atmosfera e caratteri, vede le Newjeans confondersi tra le comparse e portare avanti il lip sync con la discreta partecipazione di un coro, prima composto poi danzante.
Delicato, impalpabile, elegantissimo.
Cameo di Tony Leung, prodotto da Min Hee Jin.
#12
Only (Sampha)
diretto da Dexter Navy
È un grande ritorno questo di Navy con un video che si appoggia su soluzioni ed effetti molto semplici ma che, complici brano e interpretazione, si combinano con naturalezza prodigiosa con l’atmosfera musicale. Fuori dal virtuosismo registico e tecnico a cui ci ha abituato, il regista attraversa la spiritualità del brano di Sampha con microepisodi semplici, poetici e cadenzati che metaforizzano il tumulto emotivo del protagonista, il suo percorso di ricerca personale come viaggio innanzitutto sensoriale.
Di Sampha notevole anche Can’t Go Back diretto da Saad Moosajee in cui l’esplorazione di un paesaggio africano viene messa in scena come immersione in una dimensione astratta e quasi onirica, animata da figure simboliche e stilizzate. Colpisce l’abilità del regista nel combinare, con eleganza espressiva, live action, matte painting e computer grafica: se al centro del discorso c’è un’eclisse di sole, è dunque il lavoro su luci e ombre a dominare, per creare quelli che lo stesso regista definisce «ambienti che, pur materici e tangibili, mostrano una qualità ultraterrena».
#11
Attention (Doja Cat)
diretto da Tanu Muino
Muino è una delle certezze di questi ultimi anni, per motivi che in queste pagine sono stati in più occasioni sottolineati. Anche di questo performativo che implica la narrazione, la regista riesce a rendere con grande efficacia il concetto centrale, quello di un’artista che è spesso idolatrata dai fan per motivi che non attengono alla sua creatività. Su questa sottile linea che divide la passione dall’odio e dalla critica, imbastisce un tour de force pieno di idee visive che sottolineano, attraverso nuance quasi horror (i fan urlanti con i tratti deformati, gli incontri sgraditi, i passanti mascherati – troll? – fino a una Doja Cat nuda e insanguinata), tale dualismo, sottolineato da immagini sgradevoli alternate a sensuali e glamourissime evoluzioni. Montaggio prodigioso del sodale Carlos Font Clos.
Quest’anno Muino si segnala anche per la sontuosa fantasia camp di I’m Not Here To Make Friends per Sam Smith, in cui tutto – dalle scenografie ai costumi – è fastosamente esagerato, l’erotismo (anche sadico) non un semplice ammicco, l’ironia spennellata in ogni quadro. In questo maniero, allestito come monumentale casa di piacere, si danza una passione senza freni con le coreografie affidate, come per Unholy (il Sigismondi dell’anno scorso), al collettivo francese (La)Horde.
Muino anche per Harry Styles – dopo As It Was – nel minore, circense Daylight, mentre tutto sensualità e divismo è il performativo Lenny Kravitz che si agita nudo solo per ricordare a tutti che la figaggine non ha età, almeno nel suo caso.
Ancora Muino nei titoli di coda.
#10
Lipstick Lover (Janelle Monáe)
diretto da Janelle Monáe & Alan Ferguson
Straordinaria lesbo-macedonia, tutta giocata su seduzione e divertimento, idee a profusione, celebrazione del piacere erotico, nudità ostentate. Ma soprattutto composizione pregevole dei quadri, lavoro superbo su punti di vista e cromie (vintage: la pellicola a nudo come i corpi), concertazione magistrale di movimenti e coreografie. Alan Ferguson è un maestro e ne riconosciamo lo stile, ma Janelle Monáe non è da meno nel concept e nel suo intelligentissimo quanto disincantato mettersi in gioco. Tanto amore (anche sesso, però).
#9
Sugar (Riton feat. Soaky Siren)
diretto da So Me
Non solo uno dei video più divertenti del 2023, ma ennesima prova superba per il regista e art director francese, a suo agio come pochi nel dare corpo e racconto alla traccia musicale. Qui letteralmente consegnata al piccolo protagonista, drogato di zucchero, che fa danni in giro, ma che resta una piccola, simpatica, contagiosa canaglia. Non c’è un secondo di girato di troppo, una figura o un momento superfluo, pur nell’unica idea, disciolta nell’ambientazione realista: tutto è incredibilmente fluido, “musicale” e in evoluzione costante. Girato e montato da dio.
La classe non è acqua.
#8
Rumble (Skrillex, Fred again.. & Flowdan)
diretto da Manu Cossu
Cossu inscatola in video l’esibizione di Skrillex & co. al Troxy di Londra, ma l’ebbrezza della musica è tale da spaccare i limiti della cornice: impossibile ingabbiare una simile energia. Ecco come trasformare il semplice report filmato di una serata in discoteca nel distillato di un mondo, le immagini dicendo tutto: la temperatura dell’esibizione, gli spettatori che la popolano, il connettersi dei corpi in movimento, il backstage. Paradossalmente ci dice anche che il miglior modo di cogliere l’esperienza è esserci sul serio, viverla in diretta, non attraverso il filtro di uno smartphone che la guarda al posto nostro. Montaggio paura.
Un capolavoro, probabilmente.
#7
Schwer (Paul Kalkbrenner)
diretto da Jovan Todorovic
Come raccontare il contemporaneo, la sua alienazione, giocando su ambientazioni riconoscibili che divengono gradualmente incongrue, come se, nel sottolineare la ripetitività, la replicabilità e la prevedibilità (che diviene algoritmica) del gesto quotidiano, il contesto contasse fino a un certo punto e chi lo abita ne divenisse corpo estraneo. È proprio questa discrasia a rendere l’insensibilità della rappresentazione a suo modo estatica e a interrogare nel disagio uno spettatore in bilico tra la sensazione di realtà e quella di una sua reinvenzione con AI.
Realizzato con tecnologia digitale con modelli artificiali in 4D (catturando i movimenti di ogni persona con una quarantina di camere) e applicandoli agli ambienti pre-girati.
#6
Crushing (Eartheater)
diretto da Andrew Thomas Huang
Huang o della qualità. Non c’è un video del regista che non presupponga un lavoro, un concetto, una riflessione (sul mezzo e le sue tecniche, in primis) perché niente il Nostro crea a caso. Qui il miglior performativo pur (si legga anche nell’accezione artistica) dell’anno, in un’unica ambientazione: il discorso si fonda su punti di vista ribaltati e prospettive negate incessantemente, su un’orgia di riquadri contraddittori, frantumi di immagini, frame in abisso: nell’estetica patinata di un commercial d’antan si ragiona su entropia e caso, raccontando di come un bicchiere, creato, viene distrutto con la voce (for real). La classe. Crash.
#5
Big Hammer (James Blake)
diretto da Oscar Hudson
Oscar Hudson continua a consegnare il suo lavoro a sperimentazione e sondaggio dei limiti del mezzo. Per la traccia di James Blake immagina una gang che fa rapine sfondando con l’auto vetrine e pareti. Con tono da commedia paradossale e una curatissima caratterizzazione dei personaggi, il video si fa forte di cambi di punti di vista e prospettive sempre sorprendenti, mentre, composizione figurativa, coreografia dei movimenti, ribaltamento continuo degli scenari e artificio della messa in scena sottintendono la consueta sfida tecnica (niente CGI, o quasi: un punto fermo del nostro). La direzione creativa è di Crowns & Owls.
Come uno Spike Jonze rivisitato, ma rivendicando la propria impronta. Maestro.
#4
Rush (Troye Sivan)
diretto da Gordon von Steiner
Troye Sivan (uno che non ha mai sbagliato un video e che piazzo tra i commissioning artist di quest’anno) viaggia al limite del softcore, celebrando la scena dei club queer berlinesi e ironizzando sull’ostentata procacità dei suoi statuari danzatori; un promo che inanella quadri di una dinamicità miracolosa, trasuda gioioso erotismo e fa balenare, strategico, fulminee provocazioni. E che finisce per accendere polemiche più per la mancanza di fisicità alternative che per gli ammicchi che punteggiano le lubriche e/ma ironiche immagini di Gordon von Steiner. Un pezzo bomba che sa di esserlo e che pretendeva un video altrettanto clamoroso.
Got Me Started conferma tutto: un altro splendente coreografico (ancora Sergio Reis, con Mauro van de Kerkhof), con narrazione sottintesa, fine citazionismo (la corsa di Rosso sangue di Carax, il bacio di Happy Together di Wong Kar-wai), soffice sensualità e una gioia contagiosa che invita al repeat. La parodia al SNL di Timothée Chalamet non può che confermare la viralità del mood, della trovata, dello spirito, una cosa che ai video – lo ripeteremo fino alla nausea – succede sempre meno.
One Of Your Girls quindi, a chiusura del trittico vonsteineriano, rischia di apparire quasi una cosa minore, se non fosse non solo il più asettico e dichiarativo, ma anche il più doloroso e struggente, con un Sivan en travesti che non ti aspetti.
Nel panorama delle videostar al maschile Sivan (si guardi anche il ruolo che ricopre in quella che è la mia serie dell’anno, The Idol) è, con Lil Nas X, il più disinibito e il meno reticente oggi, nel mettere in gioco il discorso di una sessualità libera davvero (ne parlavo già qui, in conclusione della recensione di WAWWA) , come nella MTV dei tempi d’oro, senza paletti e prerogative, in un set design nudo e crudo che spazia da Steven Klein a OnlyFans. Ed è un discorso di coraggio e di tenuta poetica invidiabile, portato avanti fin dall’inizio: non ce lo dimentichiamo certo il battuage diretto da Grant Singer che già segnalammo all’epoca tra i titoli dell’anno).
Queer Lion.
#3
Mama’s Eyes (METTE)
diretto da Camille Summers-Valli
L’avevamo lasciata nella top 5 del 2021 con Beside April (BADBADNOTGOOD), ritroviamo Camille Summers-Valli altissima anche quest’anno con questo coreografico che procede per assonanze visive e campionamenti (anche apparentemente estranei) e che, strutturando il discorso sulla maternità, sottilmente narrano la storia delle origini dell’artista. Naturalmente è il montaggio a spiccare, ma è il preventivo lavoro di concezione – coreografie, alternanza di set e di registri visivi (bianco e nero e colore), armonizzazione preventiva della sessione in live action con i frammenti di repertorio e i filmini familiari – a rendere il video davvero strabiliante.
Dallo stesso sodalizio Van Gogh che conferma, variandola, la linea: un’altra energica coreografia (firmata, come nel primo caso, da Calvit Dolvin Hodge Jr.), stavolta giocata su trasformismo (Mette che incarna personaggi – uomini e donne – di differente bizzarria) ed essenzialità del set, tutto delegandosi alla capacità dell’artista di veicolare un pensiero, una storia o una dimensione interiore attraverso il gesto e l’espressione.
#2
Candy Necklace (Lana Del Rey feat. Jon Batiste)
diretto da Rich Lee
Lana Del Rey, la vecchia Hollywood, il making of di un film in bianco e nero. La Dalia Nera ritrova il suo regista (Rich Lee) e conferma la lucidità dell’artista che sa dipingere meglio l’oggi attraverso lo spettro dello ieri e che di questa sua capacità poetica ha piena coscienza.
Così, nel mostrare il dietro le quinte della preparazione di un video girato alla maniera del cinema dell’epoca dorata, l’artista, che ha firmato lo script, riflette su se stessa, sul suo immaginario e sulla percezione che lo spettatore ha del suo essere persona/personaggio. Una autofiction vertiginosa che oscilla tra l’interno della storia e l’esterno della sua messa in scena, tra Lana e i molteplici caratteri che incarna (e ha incarnato) – nei quali si confonde e/o viene confusa – e che sono puntualmente destinati alla morte.
Chi riesce, ai giorni nostri, a mettere in piedi un discorso video così coerente, consapevolmente autoriferito ma, nello stesso tempo, sempre nuovo, creativo, produttivamente impegnativo? Solo lei.
Dieci minuti di perfezione.
Grazie di esistere.
#1
Sirens (Travis Scott)
diretto da Travis Scott
È il canto di una sirena prog quello che spinge le persone fuori dalle proprie abitazioni, la mobilitazione di un intero quartiere che si compatta nel castell, la torre umana della tradizione catalana, un monumento di carne alla coesione, simbolo indiretto di quell’utopia che marchia l’intero progetto di Travis Scott, l’ideale della solidarietà fattosi corpo unico che viene scalato da una bambina per riguadagnare la luce, dal pozzo che l’aveva risucchiata. Un’immagine dal forte sapore simbolico: ce la si fa lottando uniti, la bambina come Travis (lo sguardo scambiato tra i due, alla fine, è un passaggio di testimone).
Il video ingloba un luogo scottiano, l’evocato festi-vial, come rinnovata occasione di gioiosa convergenza della sua comunità – e Scott uno di loro, tra gli spalti – dopo la tragedia dell’Astroworld. Ma l’uscita massiva dalle case sembra alludere anche al ritorno alla vita all’indomani del lockdown, quel fuori infine riconquistato, come suggerito anche dai versi del brano (Back outside, it ain’t no time for Zooms). Ipotesi, suggestioni per un video potentissimo che di umori sotterranei si nutre evitando spiegazioni letterali. E che si fonda su un’appropriazione culturale innocente, “autorizzata” come appare dal marchio catalano CANADA che produce e che mette a disposizione del precisissimo piano di lavorazione steso dall’artista, il know-how, i contatti barcellonesi e un’organizzazione che sembrava impossibile (Scott collezionava no: per i costi, la quantità di persone da coinvolgere, i tempi).
Un mashup culturale che si rispecchia nella stessa ibridazione che il brano propone coi suoi sample (l’intro prog della Explorer Suite dei New England, con la base campionata dagli zambiani Amanaz – Nsunka Lwendo, 1975 -). Straordinario il modo in cui le immagini sposano la traccia (quell’incipit: le foglie che tremano per il tumulto in atto e sembrano andare a ritmo), registro realista smentito dall’epica smaccata richiamata dal titolo (si guarda a Gavras, il cui stile nutre tutto il docudrama video contemporaneo, come Gondry abita quello concettuale), suoni naturali in sottofondo, montaggio pazzesco (Carlos Font Clos, who else?), personaggi potenziali ritagliati in un paio di secondi. Con Sirens quello di Travis Scott – lotte personali, interiori ed esteriori, Diva and The Devil – diventa un percorso umano condiviso, universale. Un rito collettivo.
REGISTA
Charlie Di Placido
Domina nell’ultimo decennio un tipo di video coreografico in cui la danza non è (solo) parte della performance dell’artista musicale, ma costituisce il concetto centrale su cui va a fondarsi un percorso di senso, di carattere più o meno narrativo. Una firma prestigiosa nel genere è Charlie Di Placido, autore del primo videociclo dei Jungle, coreografato da Nathaniel Williams e Cece Nama, video tutti in pianosequenza (codiretti con Josh Lloyd-Watson, 50% del duo inglese) e di tutto il pacchetto legato all’album di quest’anno Back in 74, disponibile anche in versione interattiva su WeTransferJungle).
Un anno ricchissimo e significativo il suo 2023 in cui spicca anche Nothing Left To Lose per gli Everything But The Girl in cui il regista continua il suo discorso, che è anche preciso intento di non spezzare al montaggio la danza, ma accompagnarla, assecondarla con un uso continuo della mdp: un altro pianosequenza in cui tutto si fa coordinazione e drammaturgia del movimento. Nell’unico ambiente la splendida coreografia di Miranda Chambers dà l’abbrivio a una sorta di possessione momentanea che mette a nudo tensioni e motivi interiori. Ipnotico, emotivamente coinvolgente, il video riesce, senza sottolineare nulla, a veicolare stati d’animo e motivi interiori dei personaggi.
Resta da segnalare Begin Again di Jessie Ware per il quale Di Placido sceglie invece la strada della semplicità, accompagnando la bellissima coreografia di Olivier Casamayou con morbidi movimenti di camera, affidando suggestioni e umori al contrasto cromatico tra i due set che alterna al montaggio. A dominare c’è l’artista coinvolta nel gioco scenico, la gioiosità dei ritmi brasiliani del brano, il sensuale, organico muoversi del corpo di ballo tra gli scenografici tendaggi e i pochi, stilizzati oggetti di scena. Un altro gioiello. Per finire il magnifico Economies Of Scale per Steven Wilson con coreografie degli stessi performer Sasha Hadid e Salome Pressac).
Altri registi:
Camille Summers-Valli
Gordon von Steiner
Rivelazione:
Furmaan + Vasso
COMMISSIONING ARTIST
Travis Scott
Di Troye Sivan abbiamo già detto, ma è impossibile non incoronare Travis Scott che quest’anno mette in campo l’opera video più ambiziosa, quel Circus Maximus che è il suo Cremaster, un’epica insieme grandiosa e intimista, concepita come raccolta di scenari differenti e di metafore autoriferite, lacerti esperienziali tenuti insieme dalla sua straniante esibizione (con ospiti) in un Circo Massimo desertificato e spettrale, come a esorcizzare l’Astroworld. E in cui chiama a raccolta, come guest director Harmony Korine, Kahlil Joseph, Valdimar Jóhannsson, Gaspar Noé, Nicolas Winding Refn.
È un ambiguo monumento a se stesso che si fa elaborazione tacita della tragedia, punto della situazione, resa dei conti, niente a che fare, tanto per intenderci, con l’algida perfezione dei progetti di Beyoncé che quadrano sempre e non sorprendono mai. Un lavoro che dialoga serratamente con lo sperimentalismo disciolto nel genere e l’avant garde brutale di AGGRO DR1FT, l’ultimo film di Korine che vede (si fa per dire, che il vedere nello specifico è tutto filtrato dal registro acido della termocamera) anche Scott tra i suoi protagonisti. Qui si passa dagli ermetici siparietti freudiani con l’unico guru possibile (Rick Rubin) a un itinerario schizoide che sembra volutamente toccare luoghi disparati del pianeta, secondo un disegno tanto imperscrutabile quanto confuso. Ma va bene così, che da questa immersione non si sa mai cosa aspettarsi, inchiodandoti alle sue immagini dall’inizio alla fine, nella celebrazione del bellissimo Utopia, uno degli album peggio recensiti degli ultimi anni (non parlo dei giudizi espressi, ma proprio del livello delle analisi in rapporto alla portata del lavoro), con trattatelli superficiali, tutti in copia della recensione di Pitchfork che sembra aver messo in bocca ai recensori le stesse parole.
E in cui si incastonano:
– il clamoroso Gaspar Noé di Modern Jam in cui il concetto coreografico di Climax si mischia alla feroce aggressione visiva di Lux Æterna (dove, per una volta, la provocazione era tutta formale) in un clip ludicamente perverso per come sa essere sadico con lo spettatore (altro che avviso per i fotosensibili);
il già segnalato Sirens e quella che è un’altra perla dell’annata:
Delresto (Echoes) feat. Beyoncé
diretto da Nicolas Winding Refn
Una corsa folle in taxi, nella notte di Copenaghen, con un autista-automa come un manichino di un crash test umanizzato (o il fantasma del Gosling di Drive) e un robotico Travis Scott immerso nell’esperienza ai limiti, in un trip al quale affidarsi per dimenticare. In testa gli echoes di un ricordo, un’immagine erotica che riemerge dall’inconscio, come un film porno d’antan. È tutto un sogno che si consuma mentre si dorme in un letto girevole, in una surreale casa piovuta dall’alto nella quale, pazienti, si ricompone il puzzle della propria vita. Un altro sogno, probabilmente.
Con Lizzielou Corfixen, figlia del regista.
TITOLI DI CODA
(pls) set me on fire (Enter Shikari)
diretto da Rou Reynolds
Video piccolo, idea semplice, resa massima. Con un seguito concettuale, più ambizioso e meno riuscito.
Dragonfly – Luv Him (About U)(Léa Sen)
diretti da Constantine // Spence
Giocati entrambi sull’atmosfera notturna, relativi giochi di luce e ombre, scorrendo una vena lievemente inquietante. Due affascinanti enigmi.
Hurt (Mychelle)
diretto da Thea Gajic
Breve storia di una crisi di coppia: camera fissa (di sorveglianza? Comunque installata dalla stessa protagonista) su un interno a rappresentare, con contorno di subplot non banali e pieni di implicazioni da approfondire, il ciclo rottura – elaborazione – riconciliazione.
Lavender Haze (Taylor Swift)
diretto da Taylor Swift
Rimpiango molto il sodalizio con Joseph Kahn, che secondo me aveva capito (come sempre) il modo per valorizzare il discorso video dell’americana, ma non si può negare che il percorso autodiretto, cominciato già da qualche anno, abbia oramai un’impronta originale e riconoscibile, alcuni titoli forti, molte invenzioni e soluzioni mai banali.
Ice Cream Man (Raye)
diretto da Raye
Che bello l’album di Raye. Qui il toccante, claustrofobico postumo di uno stupro: pianto, umiliazione, tentativo di riaversi, tutto nel volto e nel corpo dell’artista.
Feelings (Jorja Smith feat. J Hus)
diretto da Femi Ladi
Non lo si sottolinea mai, ma Jorja Smith può vantare una delle più nutrite, curate e variegate (per approcci e firme) videografie degli ultimi anni. Feelings ne è ulteriore riprova con l’artista e l’attrice Jasmine Jobson a ricoprire molteplici ruoli in questo thriller-clip che rivisita in modo alternativo la storia di Bonnie & Clyde.
Da Femi Ladi anche l’ottimo Toxic Trait di Stormzy, lodevole per come gestisce l’iniziale moltiplicarsi di situazioni e set nell’unico ambiente (tourbillon prevedibile, ma molto ben realizzato), ma soprattutto per la fluidità con la quale gestisce il feat. di Fredo, introducendolo con un’idea molto forte (una seduta psicoanalitica) che non lo fa apparire appiccicato (che è sempre il problema del featuring in video), ma, al contrario, perfettamente coerente con toni e termini della narrazione.
Song For The Silver Surfer (PolSky)
diretto da Jamie Thraves
Da uno dei maestri del narrativo, spaccato su un vecchietto che scopriamo arzillo praticante di parkour (ma, malinconia, va a disperdere delle ceneri). Elegante bianco e nero (guarda un po’), ma noia già al trentesimo secondo.
Self Control (MASSTOR)
diretto da David Wilson
Interessante per come Wilson declina nello chic-mostruoso il suo sempre scintillante immaginario camp. Sì, è la cover del pezzo di Raf.
Corner Boy (Potter Payper)
Feels This Good (Sigala, Mae Muller, Caity Baser feat. Stefflon Don)
Scenes (Potter Payper)
Sittin’ On Top Of The World (Burna Boy)
Angel in the Marble (Stormzy)
diretti da Troy Roscoe
Roscoe, ormai richiestissimo e, al solito, molto bravo: nel primo un punto di vista unico sull’esterno di un negozio, in (falso) pianosequenza in cui performance e racconto quotidiano si sposano armoniosamente. Nel secondo convincente resa di atmosfera e situazioni, con freschezza di immagini e ritmo scalpitante. Nel terzo uso di atmosfere ed elementi horror per rendere l’angoscia del brano. Nel quarto una rilettura freschissima del protocollo del video hip hop. Il quinto è una marchetta di lusso, ma è real e risolto con eleganza.
Wellll (Jacob Collier)
diretto da Hey Honey
Amenissimo performativo, con idee visive chiarissime tutte giocate su scenografie, colori, ritmo. Non è sempre questione di budget, eh.
Daddy There’s Sand In The Sandwiches (Legss)
diretto da The Reids
Per l’estetica vintage, il lavoro sugli effetti, il bianco e nero (sì, ma ha senso stanti i riferimenti cinematografici), la narrazione, l’atmosfera, l’ambizione.
Ddoe (Minas)
diretto da Ynyr Morgan Ifan
Una session di gruppo in palestra si trasforma in una sorta di disturbante sabba, una possessione momentanea. Effetti mirati e un crescendo affidato a interpreti, montaggio e riprese, nell’asettica estetica di fondo.
Gasoline – Revenge Of The Orchestra (Apashe)
My Mind At Ease – Dominique Fils-Aimé
diretti da Adrian Villagomez
Tre notevoli realizzazioni di Villagomez, sempre bravo, e, a questo giro, marcatamente derivativo: il primo quasi un Tarsem riverniciato nell’estetica moderna, il secondo un tentativo à la Lemoine esasperato nel kitsch. Il più bello è il terzo – un simil-Ferguson spudorato -, coreografico assai suggestivo e gestito da maestro. C’è talento.
The Other Side Of Paradise (Glass Animals)
diretto da Eoin Glaister
Falso complottismo sulla presunta morte del leader della band Dave Bailey, dunque video costruito come un TikTok con tutto il corredo di situazioni, revisioni, ipotesi e approfondimenti live che la narrazione richiede. Fatto benissimo, ma una gran palla e, tutto sommato, non così originale.
Chasing That Feeling (TXT)
diretto da Christian Breslauer
Anche il K-Pop a volte guarda al videomaking occidentale, con risultati pazzeschi come questi.
The Girl Is Crying In Her Latte (Spark)
diretto da Ron Mael, Russell Mael, Richie Starzec
Quello che suole definirsi un video performance. Artistica, di Cate Blanchett. Facciamo finta che sia bello e interessante e non velleitario e vecchissimo.
Kill Bill (SZA)
diretto da Christian Breslauer
Di Breslauer, sempre felicemente prolifico, segnalo anche questo esercizio necessariamente tarantiniano.
Madly (The Blaze)
diretto da The Blaze
Una narrazione realista (con un autonomo titolo: The Poem), sotto forma di evocazione, con prologo a margine. Molto ben fatto, ma idee poche, molto mestiere, di ispirazione neanche un barlume.
Glue – Stolen Nova
diretto da Nadia Lee Cohen
Vale la visione anche solo per il coraggio di rifare Velluto Blu come Glue Velvet... Quasi una lettera d’amore a Lynch. E sai cos’è una lettera d’amore? È il proiettile di una pistola, stronzo.
Bubblegum Dog (MGMT)
diretto da Tom Scharpling e Julia Vickerman
Omaggio a un’era videomusicale, quella del rock alternativo anni 90, nell’ironico incrocio tra certa estetica televisiva (il programma infantile Yo Gabba Gabba!) con la serietà rituale del MTV Unplugged (il pensiero al grunge e ai Nirvana è automatico).
My Love Mine, All Mine (Mitski)
diretto da AG Rojas
Ritorno alla videomusica di AG Rojas con un esercizio lirico dei suoi, ai confini della performance artistica (la scalata di una torre di sedie che poggia su un uovo), di un’austerità poetica tale da sfiorare l’astrazione.
Ocean Niagara (M83)
diretto da Yann Gonzalez
Chi più di Yann Gonzalez, fratello del fondatore Anthony, può tradurre in immagini il dreamy sound del gruppo? Psichedelia sfrenata, immaginario queer, trionfo di un’estetica retrofuturista.
Seven (Jung Kook feat. Latto)
diretto da Bradley & Pablo
Yes or No – Standing Next to You (Jung Kook)
diretti da Tanu Muino
Altri sparsi b/w:
Not Different (Amaru)
diretto da Original Kids
Black Moonlight (Duran Duran)
diretto da Jonas Åkerlund
No Friendz (Chase Tha Worst)
diretto da Ling Yu
Screaming Suicide (Metallica)
diretto da Timothy Saccenti
Wagging Tongue (Depeche Mode)
diretto da The Sacred Egg
VIDEO DELL’ANNO 2023 – prima parte – Tutte le categorie