Drammatico, Recensione

CERRAR LOS OJOS

Titolo OriginaleCerrar los ojos
NazioneSpagna, Argentina
Anno Produzione2023
Durata169'
Scenografia

TRAMA

Un attore scompare durante le riprese di un film. Anni dopo riappare, ma senza sapere chi sia o nulla della sua vita precedente.

RECENSIONI

Com’è noto Victor Erice non si affaccia alla ribalta molto di frequente. Un lungometraggio nel 1973 (Lo spirito dell’alveare), uno nel 1983 (Il sud), uno nel 1992 (Il sole della mela cotogna). Le poche volte che lo fa, tuttavia, conviene tributagli religiosa attenzione, perché i suoi film sono tutti tra i più vicini in assoluto al rivelare cosa sia il cinema, come funzionano i nostri occhi e quale sia il loro rapporto col mondo.  Vale anche per questo nuovo, strabiliante Cerrar los ojos. Pochi film come questo hanno dato la giusta misura del nostro presente ormai post-cinematografico, ricordandoci come l’autoscomparsa e l’autocancellazione siano nel DNA stesso del cinema, intrinsecamente.  Perché? Perché vedere e chiudere gli occhi sono la stessa cosa. È la cecità che struttura la visione; è un punto cieco all’interno del campo visivo che rende possibile la costituzione di quest’ultimo. Il cinema ci ha mostrato cosa voglia dire vedere, ovvero ci ha mostrato la cecità al cuore del vedere; è dunque giocoforza che il passo successivo fosse un’era post-cinematografica come la nostra, dove l’iperesposizione delle immagini 24/7 ci rende, di fatto, ciechi verso di esse. Il cinema non è dunque un oggetto perduto di cui avere nostalgia, bensì ciò che è tanto più presente oggi quanto più la nostra cecità odierna è stata da lui rivelata una volta per tutte.  Se mai c’è la minima goccia di nostalgia nella ricerca, da parte dell’ex regista Miguel, del suo amico e attore Julio, misteriosamente scomparso nel 1990 sul set di un suo film, essa viene emendata spietatamente strada facendo, per diventare una limpidissima, perfetta allegoria di come funzionano i nostri occhi, e dunque per estensione la soggettività umana. La cecità è al cuore della visione: vedere significa accecarsi davanti al punto cieco che struttura il nostro campo visivo. Ugualmente, la soggettività non è il prodotto delle nostre esperienze filtrate da coscienza e memoria, ma è l’atto di rescissione rispetto ad esse, il “bootstrap” con cui ci autoinventiamo, sulla base di nessuna base. Siamo ciò da cui ci stacchiamo, letteralmente. L’abbandono quasi totale dalle scene pubbliche da parte di Erice viene rifranta nella scomparsa di Julio, ma anche in quella di Miguel, il quale, come uno dei personaggi di uno dei libri che sta traducendo, ha smesso di essere regista per poter realizzare la sua attività di cineasta nella vita vera, dandosi a una rilassata (e per questo, oggi, utopica) vita normale, in un villaggio costiero, fatta di pesca la mattina presto, lavoretti intellettual-editoriali, e pochi ma buoni rapporti umani col circondario.

Miguel dunque è già in partenza Julio, ma, per essere fino il fondo il “punto cieco” che la soggettività è, deve riallacciarsi all’aspetto fondante del punto cieco della visione come della soggettività: l’essere al contempo il prodotto di una rete relazionale intersoggettiva, e il perno intorno a cui essa ruota. Incorniciato da due sequenze del film incompiuto del 1990, Cerrar los ojos è compreso interamente nel percorso dal punto cieco alla dimensione intersoggettiva che esso fonda essendone al contempo fondato. Lungo questo percorso, una rete di persone si stringe intorno alla ricerca di Julio, che naturalmente non ritornerà “il Julio di un tempo”, ma ricorderà a tutti come vedere ed essere ciechi sia la stessa cosa.  Verità, questa, che il film non si limita ad enunciare, ma si spinge fino a “praticarla” con una gestione dei tempi del racconto sovranamente illuminata. Nessuna fretta, nessuna ossessione drammaturgica per qualche filo o linea retta che ogni scena dovrebbe indaffararsi a seguire o costruire. Ogni scena è “cieca” rispetto al proprio “punto”, e dunque le viene concesso il tempo di espandersi, respirare, assorbire lo spazio a 360° prima di passare oltre in tutta tranquillità. È l’arte del vivere, né più né meno: l’arte di afferrare il vuoto al cuore del presente prima che questo esploda e diventi il presente successivo, sconfessando qualunque eresia di rettilinearità. È un’arte del vivere che però ci è preclusa nella misura in cui continuiamo a essere prigionieri dell’ipervisibilità mediatica dei nostri giorni (come il giornalista, apertamente sbeffeggiato nel film, che dietro al mistero della scomparsa di Julio vede uno scenario ulteriore, una coerenza nascosta che la inquadri e la spieghi). A quest’arte abbiamo accesso solo ripristinando non solo un generico contatto, ma anche un’intima confidenza (soprattutto rispetto alle sue dinamiche intersoggettive) con la cecità al cuore del vedere e della soggettività. Ed è una confidenza che, anche oggi, solo il cinema ci può dare.