Recensione, Thriller

THE HITCHER (1986)

Titolo OriginaleThe Hitcher
NazioneU.S.A.
Anno Produzione1986
Genere
Durata95'

TRAMA

Il giovane Jim Halsey sta attraversando il deserto del Texas per consegnare la lussuosa auto di grossa cilindrata che sta guidando al legittimo proprietario a San Diego quando per strada, nel cuore della notte, raccoglie uno strano autostoppista.

RECENSIONI

Splendido esordio al lungometraggio di finzione per il giovane e talentuoso documentarista Robert Harmon che disattenderà ben presto le premesse (e le promesse) non riuscendo a girare mai più nulla di lontanamente simile. The Hitcher lo si potrebbe definire, non senza margini di approssimazione, un road movie che partendo dagli assunti di pellicole imprescindibili quali Punto Zero di Sarafian e Duel di Spielberg, traslittera le mitologie dell’on the road in chiave orrorifica. Pur non ribaltando il sostrato concettuale del viaggio come eminente metafora di un percorso di maturazione psicologica, ma anzi attingendo a quella stessa simbologia kerouachiana che ha disegnato i confini topografici dell’immaginario cinematografico di sempre (le polverose highways, gli inquietanti motel, i dimessi rifornitori di benzina e le lugubri catapecchie disseminate qua e là ai bordi delle strade), gira un film in cui la desertica metafisicità della strada percorsa dalle auto diviene immagine allegorica per descrivere tutta l’inquietudine di un paese che si sta dirigendo verso indefinibili e allo stesso tempo ineluttabili derive. Il grande vuoto delle desolate lande del Texas diviene l’altra faccia delle magnifiche sorti e progressive della non meno minacciosa metropolanità americana. In questo senso l’orrore secondo Harmon prende un’altra direzione rispetto a quello di un Carpenter (Halloween), di un Cunningham (Venerdì 13) o di un Craven con la sua fortunata serie di culto dedicata a Freddy Krueger (fatta eccezione ovviamente per il bellissimo Le colline hanno gli occhi), che punta a scavare nelle profondità più recondite della psiche umana per raggiungere e mostrare le radici più autentiche delle nostre paure. Il Bogey Man di Harmon assume connotati indubbiamente più sociologici divenendo il doppio inadeguato, inquiet(at)o e psicotico di una condizione giovanile (e non solo) deraciné, disperata perché abbandonata a sé stessa (nessuno può dare ascolto alla voce strozzata e disperante del giovane Jim Halsey se non una ragazza, ovvero un individuo che si trova nella sua stessa tragica situazione esistenziale). E’ un male (di vivere) e una paura (dell’ignoto, a livello sociologico: la California rappresenta più un ideale sociale che una meta geografica da raggiungere per fare fortuna) che chiedono di essere estirpati (è John Ryder stesso, il terrificante autostoppista, che con la medesima espressione lancinata del volto bladerunneriano di Rutger Hauer, implora di essere fermato). Pellicola di irredimibile cupezza in cui la notte e il giorno possiedono lo stesso sporco e doloroso lividore dove la tensione adrenalinica tra i personaggi si costruisce in un crescendo dialettico trai claustrofobici interni di lamiera degli abitacoli e degli inquietanti esterni fatti di un nulla senza confine grazie a un vero e proprio capolavoro di montaggio.