TRAMA
Fergus e Frankie sono amici dall’infanzia ed entrambi hanno intrapreso la carriera militare. Frankie muore in circostanze non chiare e Fergus vuole saperne di più…
RECENSIONI
Con L’altra verità, Loach arriva a estendere la sua visione del Male Reale dalla società inglese allo sfaccettato scenario politico della guerra in Iraq. Per i primi quaranta minuti il film insegue fiaccamente le vicende private di Frankie e Fergus, concentrandosi troppo sul piano intimo e retorico e non mostrando le linee rappresentative del contesto sociale nel quale i protagonisti si trovano ad agire. Penetrando nel conflitto, attraverso la dimensione intima degli amici che fanno parte della medesima squadra di contractors (scelta che dipende ovviamente dal bisogno di denaro prima che da una convinta motivazione politica o ideologica), Loach svela il carattere privato della guerra, costruendo L’altra verità dal punto di vista del protagonista e avvalendosi di un procedimento non molto lontano da quello usato ne La canzone di Carla: come nel film del 1996 il regista non prende di petto la questione, ma cerca di esibire la strumentalizzazione che l’Occidente fa dei territori del Medio Oriente mostrando l’altra verità attraverso il rapporto d’amicizia tra i due soldati prima e l’indagine sulla morte dell’amico poi. Il processo di comprensione che dal buio porta alla luce è scandito dall’uso della tecnologia – skype, le foto e i video sui cellulari – che sembra essere la caricatura assoluta del profondissimo Redacted, più che una riflessione sui mezzi telematici di conoscenza. La morte di Frankie è sicuramente, ancora una volta – come il ritrovamento di Antonio ne La canzone di Carla –, il simbolo dell’orrore della guerra e della forza mistificatoria dell’Occidente, che offusca e nasconde le morti scomode, ma lo sguardo di Loach sembra cambiato dalle pellicole precedenti, e l’adesione al punto di vista del combattente esclude inevitabilmente il contesto sociale dal quale traevano forza i film passati: ricollocando il personaggio al di fuori dell’ambiente a cui appartiene e allontanandolo dalle figure di contorno, spesso punti di forza del suo cinema, Loach si conferma un debole costruttore di caratteri, privi, se estromessi dalla realtà (sotto)proletaria britannica, di una forza propulsiva autonoma e di uno spessore autentico.
Loach è interessato ad indagare cosa voglia dire essere oggi un combattente, alla dicotomia tra civile e soldato, alla lingua imparata nei campi di battaglia ormai diversa da quella impartita dalla legge e dal mondo civile. Ai sensi di colpa, alle crisi di nervi, alle lacrime dei personaggi inermi che si trovano immobilizzati nelle azioni, ma purtroppo intrappolati nell’inquadratura (soprattutto Rachel), fanno eco le risse violente, l’uso del mitragliatore, le torture e le esplosioni in forte contrapposizione rispetto alla solidarietà e all’umanesimo, dilemmi centrali nelle precedenti pellicole: al regista non interessano più le possibilità di rivoluzione, il riscatto proletario e, cosa più importante, la speranza e la tensione verso un lieto fine spesso irraggiungibile.
Il cammino verso una verità univoca riporta al nero, alla perdita di senno del protagonista accecato dalla vendetta. Non volendo salvare nessuno e perseverando sulle sequenze di tortura, il film perde di efficacia, annoia e si paralizza, vittima della sua stessa disperazione, lasciando l’intento di denuncia più sulla carta e nelle interviste di Loach che nelle immagini del film finito.