TRAMA
Michel viene lasciato dalla fidanzata perché non vuole avere un figlio. Trova però un portachiavi dalle fattezze femminili che risposte al fischio con un sensuale “I love you”…
RECENSIONI
L’intento cinematografico di Ferreri si sposta, trasloca dai centri storici e si avvicina sempre di più alle “nuove città, alle nuove metropoli”, periferie irriconoscibili e volgari, vacuità territoriali in cui il protagonista (Christopher Lambert) sembra essere l’unico superstite, l’unica figura che si discosta dal grigio dei palazzi in costruzione. Sono passati diciassette anni da Dillinger è morto e Ferreri ne ripropone i tratti, il tema si svuota (definitivamente) di significato, le illusioni e i valori spariscono per lasciare spazio alla chimera fastidiosa e non raggiunta – come la nave alla fine del film – che è ormai solo il miraggio di un’utopia coniugale difficile da rimuovere.
Se in Dillinger è morto prevale l’inazione tesa a mostrare una realtà (pluri)interpretabile che si costruisce mediante il mescolarsi degli opposti realtà/finzione, in I love you ogni gesto diventa superfluo e innaturale, piatto e inutile nel sottolineare l’inettitudine del personaggio. Se infatti nel film del ’69, il protagonista cerca sempre di analizzare e modificare le sue creazioni, il Michel di I love you perde di spessore, la sua realtà diventa proiezione oggettuale auto-refenziale (un po’ trash) e, accettando la vincita del capitalismo quindi l’arrivo della società dei consumi, si ritira in dialoghi privi di senso, leit-motiv riciclati e ormai usurati in cui il futuro è (ovviamente) abolito e inaccessibile. L’intreccio del film, costruito sull’impossibilità della realizzazione del desiderio coniugale e il dovuto, quanto inevitabile, ricorso all’utilizzo di oggetti-feticcio, è minato dal forte impiego di luoghi comuni (l’ambientazione del centro sociale, il nichilismo esagerato, l’inibizione dei modelli borghesi) e dal determinismo necessario finale.
Ferreri è in crisi con un non riuscito remake di Dillinger è morto, con una realtà che non riesce (forse) a fare propria, cristallizzato, da una parte, sulla trasformazione del desiderio in feticcio, e dall'altra, sull'evoluzione (?) delle immagini che vengono elaborate digitalmente senza un effettivo controllo. Lo sguardo freddo e oggettivo del regista può solo trasmettere la grandezza passata, segni ri-adattati fino alla noia, una messa in scena della miseria umana mediocre e farraginosa. Una fastidiosa e asfissiante rappresentazione di atti sessuali che diventerà sempre più insistente e dimessa, provocatoria tout-court in cui lo spettatore non saprà più muoversi e troverà spiegazione solo all'interno della disfatta quanto sfuggente filmografia del regista.