Recensione, Thriller

THE NEXT THREE DAYS

NazioneU.S.A.
Anno Produzione2010
Genere
Durata122'
Sceneggiatura
Tratto dadal film "Pour Elle" (2008) di Fred Cavayé
Montaggio
Scenografia

TRAMA

Pittsburgh. Lara Brennan, donna in carriera sposata con John e madre del piccolo Luke, viene arrestata con l’accusa di aver ucciso la sua dirigente. Nonostante si professi innocente, le prove sono contro di lei e i gradi di appello non fanno che confermare la lunga pena detentiva. John, insegnante di letteratura, non si dà pace ed escogita un piano per farla evadere, consacrando la propria vita alla progettazione della fuga.

RECENSIONI

Non si può certo definire Pour Elle, il film di Fred Cavayé di cui The Next Three Days è il remake, una pellicola asciutta, piena zeppa com'è di situazioni implausibili e incastri forzati. Ma altresì feconda di un sottotesto simenoniano ben assimilato ('la teoria della crepa' interpretata in negativo: non l'uomo sotto il delinquente ma il criminale che si nasconde sotto il Monsieur Tout-le-Monde) e innervata da una progressione drammatica serrata e incalzante (la girandola di eventi degli ultimi venti minuti non tradisce cali di ritmo o passaggi a vuoto). Impreziosito da uno smaliziato cameo di Olivier Marchal che enuncia il dogma del film ("Evadere è una cosa, il più duro è rimanere liberi"), quello di Cavayé è uno scafo noir con motore thriller: pescaggio profondo e andatura spedita non priva di traiettorie hitchcockiane.

Che Haggis, nonostante la frequentazione eastwoodiana, non fosse il nuovo Siegel lo si era capito già da Crash - Contatto fisico, anche se Nella valle di Elah, col suo scavo anticonvenzionale, rappresentava un sensibile passo avanti nella carriera del cineasta e sceneggiatore canadese. Putroppo The Next Three Days conferma la prima impressione e si rivela un rifacimento mediocre che, in ossequio al luogo comune del remake hollywoodiano banalizzante, ciclostila quasi integralmente l'originale esplicitandone i non detti e aggiungendovi accenti familisti a forte coefficiente patetico. Giusto un paio di esempi per dare l'idea: l'abbraccio di commiato tra John e il padre (il glorioso Brian Dennehy) non può restare muto come nel film di Cavayé, ma abbisogna di una battuta chiarificatrice (come se non bastassero gesti e sguardi ampiamente eloquenti); la presenza del figlio (Ty Simpkins, un tantino grandicello per il ruolo) non può essere intrinsecamente indispensabile, ma necessita di una svolta drammatica rischiatutto (come se l'amore materno non fosse stato esposto a sufficienza).

Il risultato è che il regime di mélo soffocato che metteva Pour Elle al riparo dalla retorica sentimentale (anche grazie alla prova ipoglicemica di Diane Kruger) degrada in sentimentalismo didascalico e sensazionalismo enfatico. Ma la magagna più grave, andando più a fondo, risiede in un minutaggio al di là di ogni ragionevole proporzione: aggiungere trenta minuti di precisazioni psicologiche (il prologo litigioso) e delucidazioni didattiche (la matrice donchisciottesca del comportamento di Russell Crowe) a una vicenda che parte in sordina e cresce con l'accumularsi degli episodi significa appesantire spropositatamente una scansione ritmica ben congegnata in origine. Errore marchiano per uno sceneggiatore alle prese con la riscrittura di un copione che aveva proprio nella gestione dei tempi il suo punto di forza.

Ulteriore spia banalizzante: il trattamento della responsabilità. Se il film di Cavayé si disinteressava o quasi della presunta colpevolezza/innocenza di Lisa per concentrarsi esclusivamente sull'ossessione evasiva di Julien (Vincent Lindon), quello di Haggis torna a più riprese sulla questione con indigesti flashback in bianco e nero, pedanti alterchi legali e, dulcis in fundo, con una perlustrazione fuori tempo massimo della scena del crimine. Segni di moralistica ritrosia a sospendere il giudizio e sottrarre la narrazione all'ipoteca manichea. Peccati tutt'altro che veniali per una pellicola che, più e meglio dell'originale, territorializza la vicenda di John e Lara (Elizabeth Banks) in uno scenario urbano vivido e concreto: una Pittsburgh esplorata in lungo e in largo (il carcere della Contea di Allegheny situato in pieno centro, i traffici illegali a Hill District, la zona residenziale di Sharpsburg) ma che, gravata da una durata ipertrofica ed estenuante, non è in grado di risollevare da sola un thriller bolso e sbottonato. Parola d'ordine: recuperare Pour Elle.

Pour Elle (2008) di Fred Cavayé riadattato per Hollywood dalla penna di Paul Haggis: gli americani esigono eroi contro cattivi, in Francia si può sporcare e rendere tutto più ambiguo e il risultato è sensibilmente differente. Haggis aggiunge scene (il prologo al ristorante), piega la materia al suo “cinema del dolore”, ci sa fare sia con i dialoghi sia nell’intensità emotiva. Il problema di film simili è che, finché stazionano nei territori di genere per concedersi qualche tocco più riflessivo, sono efficaci; quando, come qui, si tiene perennemente il piede anche nella staffa più “autorale”, il risultato è poco convincente: la prima parte promette invano, infatti, dissertazioni sul concetto di ingiustizia e sul valore dell’istinto in amore, sulla sofferenza dell’uomo medio sconfitto e sui possibili paralleli con il Don Chisciotte (John Brennan, che non accetta “la realtà”, lotta contro i mulini a vento e non permette alla razionalità di uccidere l’anima. Nel film francese, invece, il protagonista insegnava un Simenon che prestava i suoi temi alla poetica dell’opera). Ci sono altri “tocchi d’autore” deleteri per l’economia del film (citiamo, ad esempio, la scena in cui l’evasa, per non rinunciare al figlio, si butta dall’auto in corsa e trova un tacito accordo con il marito semplicemente stirandosi le dita) ma, per fortuna, come faceva Cavayé, si finisce con il lasciare spazio al thriller d’azione, con ottima orchestrazione della tensione ma una falla nel dosaggio delle risorse fornite alle pedine in campo: caso più unico che raro, non è il fuggitivo a possedere idee inverosimili per svignarsela, ma sono le indagini della polizia a essere troppo efficienti, finanche artificiose, annullando, di conseguenza, l’effetto di tensione stesso. Chiudono parti inedite rispetto all’originale (la scena allo zoo, l’inseguimento con cappottamento della macchina, il flashback finale) che permettono a Haggis di rimarcare il senso di pathos con l’uso di musiche, sguardi, tenere riappropriazioni degli oggetti d’amore ed un tocco gratuito, sopra le righe, quello in cui il detective, mosso da scrupoli (perché?), riesamina il luogo del presunto delitto: è come se Haggis urlasse il concetto che, negli Stati Uniti, alla fine il Sistema, per quanto fallace, corregge i propri errori, ma poi lo ritira (?), dato che il Destino beffardo finisce per obliare la prova della discolpa.