TRAMA
Bielorussia, 1943: le truppe naziste, dirette verso la Russia, mettono a ferro e fuoco centinaia di villaggi. Un gruppo di soldati della resistenza viene a reclutare un ragazzino, per la disperazione della madre. «Con noi starà al caldo», la rassicurano. A costo di bruciare vivo.
RECENSIONI
Già a partire dal titolo, ispirato all'Apocalisse di San Giovanni, l'opera più celebre di Klimov interpella con violenza lo spettatore, trascinandolo da subito, ex abrupto, nella fornace della rappresentazione (a dispetto della titolazione italiana, Idi i Smotri significa Vieni e vedi). Ribadiscono tale tensione diversi dialoghi aperti, frantumati in primi piani frontali, dove gli sguardi irremovibili, di glaciale incuranza, costellano il resoconto di quest'apocalisse terrena e terragna come dardi indisciplinati, diretti a bucare la quarta parete, a minacciare la placidità di chi guarda. Siamo noi il solo controcampo di questi volti senza più interlocutore, irrimediabilmente scissi l'un dall'altro, disposti frontalmente, con schietta teatralità, noi a far da sponda a quel che si dicono, indecisi se immedesimarci o estraniarci: la chiamata in causa non è solo agguato fàtico, e nell'esibizione prolungata di sguardi ad altezza mdp si raffredda, a tratti, l'incandescenza di una fiera delle atrocità altrimenti insostenibile (J.G. Ballard lo considera, non a caso, il miglior film di guerra ch'abbia mai visto). Lo sconvolgente romanzo di deformazione procede in soggettiva (la nostra), si fa specchio fedele di una percezione devastata, come lacera e sconvolta è la psiche di chi passa d'improvviso dal tempo dei giochi al tritacarne della guerra. Gli orrori del conflitto sono (ri)visti sì dagli occhi di un bambino, ma non c'è ombra della fragile poesia che animava L'infanzia di Ivan di Tarkovskij, così com'è lontanissima l'infanzia sognante e rivoltosa del primo, ammirevole Klimov (Look, the sky! e Benvenuti, ovvero vietato l'ingresso agli estranei). Tutt'attorno alla piccola recluta, avanza un trionfo della morte di proporzioni bruegeliane, convulso e solenne ad un tempo. Si tratta di giorni, forse settimane, ma il suo volto di bambino fa in tempo a invecchiare in maschera statuaria, il terrore ne sfregia la pelle, già decrepita, ne paralizza lo sguardo, d'orbite vuote, ne pietrifica i lineamenti, a nervi spezzati, e lo lascia folle, quasi esanime, a urlare muto, laocoontiano. La sospirata avventura militare, abbracciata con tanto entusiasmo nell'incipit, lo disintegra in tutto e per tutto, congelando l'idiozia suicida del sorriso iniziale in rictus nervoso, come un'ultima, beffarda ferita su un volto divenuto esso stesso cicatrice.
In Va' e vedi si fa terra bruciata di molta retorica da war drama, non esistono eroismi ammissibili, né s'intuiscono vie di scampo, consistendo l'azione d'inutili fughe e d'effimeri rifugi. Come in Apocalypse Now, la guerra è uno stato disturbato della mente, l'orrore umano il suo distillato; come ne La sottile linea rossa, alla distruzione generalizzata risponde il canto straziato di una natura edenica e remota; ma nel suo realismo viscerale, nel vivido soundscape e nell'allucinato espressionismo dei suoi attori (tutti non professionisti), il furioso requiem di Klimov non ha pari. La folta aneddotica sul film racconta di scene girate con uniformi originali e armi autentiche, con proiettili veri che passavano dieci centimetri sopra le teste degli attori, e sedute d'ipnosi per il piccolo protagonista, (in)utili a fargli dimenticare le scene più efferate affrontate sul set. Il tentativo spasmodico di giungere al massimo grado di realismo possibile, esso stesso a prova di morte, apporta al film una potenza drammatica inusitata, che trova il suo culmine nell'intensissimo uso del sonoro - si guardi quando calano le prime bombe, di come dal boato avanzi un fischio persistente, assordante, appena screziato dalla voce del ragazzo, inudibile persino a se stesso, e di come segua, nella scena dell'impantanamento dantesco, l'inestricabile selva sonora: un mostruoso frastuono di ronzii, latrati, brandelli di classica, litanie, drones e strépiti d'uccelli, come acufeni incurabili di un mondo ferito a morte. Così il traumatico realismo delle sparatorie, vere e proprie allucinazioni da guerra fredda con quell'artiglieria da incubo, o l'agghiacciante istrionismo del costrutto emotivo, squassato da pianti improvvisi e risate isteriche. Il formalismo visivo non è da meno, con la fotografia a illividirsi insieme al crescendo drammatico e i poderosi pianisequenza a richiamare i sublimi tempi di Tarkovskij (come lui, Klimov era figlio della luminosa influenza/docenza Dovzenko-Romm; da lì anche la viva attenzione di entrambi per il paesaggio). Come il rogo finale che chiudeva Sacrificio, l'ultimo capolavoro di Tarkovskij, così, in quest'altissimo esempio di cinema antimilitarista (e antifascista), un incendio inestinguibile suggella il momento terminale di tutta una filmografia, marchiando a fuoco l'ultima opera realizzata da Klimov, ritiratosi poco dopo. Benché l'edizione italiana sia mutila di una ventina di minuti, Va' e vedi merita ad ogni modo di esser (ri)visto: a tutt'oggi, le braci di questo film dilaniante e inesorabile non smettono di bruciare.
