TRAMA
Mi-ja ha sessantasei anni, l‘Alzheimer incipiente e un‘inclinazione poetica inespressa: per vivere fa affidamento sul sussidio del governo e su un lavoro part-time come domestica presso un anziano infermo. La figlia se n’è andata a Pusan dopo aver divorziato e ora tocca a lei occuparsi del nipote adolescente Wook. Iscrittasi in ritardo a un corso di poesia, Mi-ja è costretta ad affrontare un delicato imprevisto: insieme a cinque amici, Wook ha approfittato sessualmente di una compagna di scuola, provocandone il suicidio. Per evitare la denuncia del nipote, dovrà versare alla madre della vittima una grossa cifra di denaro che non possiede e non sa come procurarsi.
RECENSIONI
Film sulla parola ma non esclusivamente di parola Poetry, quinto lungometraggio cinematografico dell’ex ministro della cultura e del turismo Lee Chang-dong. Dopo il tagliente Secret Sunshine, miglior attrice a Cannes 2007 per Jeon Do-yeon, il cinquantacinquenne Lee compone un altro sfaccettato ritratto femminile affidando a Yun Jung-hee, storica interprete del cinema coreano degli anni ’60 e ’70, il compito di dare corpo e anima al personaggio di Mi-ja, donna colpita dai primi sintomi dell’Alzheimer (la difficoltà a ricordare i nomi comuni) ma niente affatto disposta ad abbattersi o arrendersi. Anzi, la sua sorridente vitalità la porta a ribaltare la demenza incombente in sforzo espressivo, in riattivazione del linguaggio.
Sembrerebbe fuori tempo massimo Mi-ja: troppo tardi per iscriversi al corso letterario, troppo vecchia per dedicarsi alla poesia. Ma lo spirito aperto e intraprendente di cui è munita le permette di misurarsi con l’inafferrabilità dell’ispirazione poetica e con le traversie dell’esistenza senza perdersi d’animo e piangersi addosso. A renderla così forte (ma non invulnerabile) è il semplice fatto che sa chiedere: sa domandare attenzione o aiuto alle persone che le stanno intorno, sa porre i quesiti giusti all’insegnante di poesia (giusti perché ingenui e diretti), sa infine interrogare la realtà circostante. Pazientemente, senza pretendere soddisfazioni immediate: osservando. Questo non la mette certo al riparo dalle offese e dalle asperità della vita, ma le consente di mantenere un’attitudine non arrendevole né arrogante.
Eppure, nonostante l’indubbia simpatia del cineasta e sceneggiatore nei confronti della sua protagonista, Mi-ja non è affatto una figura esemplare o ideale: anche se in lei si condensano i segni discriminatori di una società sessista e aggressiva come quella sudcoreana, la sua dignità non ha i connotati del manifesto di protesta scritto a caratteri cubitali. I suoi comportamenti più evasivi o superficiali (nasconde alla figlia la malattia diagnosticata, risponde avventatamente alle domande di un giornalista intrigante) si manifestano con la stessa spontaneità di quelli più invasivi o esigenti (scuote il nipote per conoscere il perché dei suoi atti, si rivolge all’anziano accudito per ottenere i soldi di cui ha bisogno). Ed è proprio in tale equilibrio di toni che Shi raggiunge i suoi esiti migliori, confermando la maestria di Lee Chang-dong nel tratteggiare personaggi dotati di un’umanità non ridotta a mero contenitore retorico (basti pensare all’aspro Green Fish o allo straziante Peppermint Candy, secondo chi scrive il suo capo d’opera). Una ricchezza di tonalità e sfumature psicologiche che è valsa alla pellicola il prestigioso Prix du scénario al 63º Festival di Cannes.
Meno incisivo, invece, il trattamento del tema lirico e dello spartito visivo. Poetry, prevedibilmente, fa della poesia il propulsore estetico dell’intero film: la ricerca della bellezza nelle cose ordinarie (e l’atteggiamento di onestà che una ricerca simile implica) non solo diventa un chiodo fisso per Mi-ja, ma rimbalza direttamente sul piano dell’espressione cinematografica. Come l’aspirante poetessa trova ispirazione prendendo appunti estemporanei sul suo quaderno (le cui pagine riempiono puntualmente lo schermo), così lo stile della pellicola osserva un profilo programmaticamente basso (talvolta addirittura azzerato, come nelle inquadrature frontali dei corsisti che si rivolgono alla classe), concedendosi misurate licenze in rare occasioni e nel bellissimo epilogo. Immagini di cristallina semplicità ripercorrono il tragitto della ragazzina suicida, mentre la poesia di Mi-ja Agnes’ Song si tramuta in un distico elegiaco che incorona Lee come il più grande compositore di finali del cinema coreano contemporaneo.
Cinema con il cuore in mano e un dilemma morale nella mente. L’ex-scrittore e maestro Lee (che ci piace immaginare comunicativo ed appassionato come il maestro di poesia della finzione) compone una pellicola di intense emozioni senza emotività plateali, di forte tensione etica senza proclami urlati, di poesia esistenziale su tormenti e dubbi senza lirismi autocompiaciuti. Soprattutto nell’inizio più “spensierato”, ricorda Mike Leigh nel modo in cui “entra” dentro gli attori ed i loro personaggi, nel loro mondo, cercando, come la poesia, di “vedere” veramente, di rinvenire bellezza (che è anche giustizia: fare la cosa giusta), di evocare un sentire interiore da trasformare in parole potenti. Nel suo cinema del quotidiano, anche la componente “eccezionale” ha la stessa naturalezza del letto d’acqua del fiume, del canto degli uccelli, della bellezza di un albero che la sua protagonista Irina Palm osserva, un’eccezionale Jeong-hie Yun, grande diva cinematografica del passato coreano. I dettagli, i simbolismi, i paralleli nel racconto sono tantissimi e fecondi, degni di uno scrittore dotatissimo, e rendono la visione un’intensa, appagante esperienza umana nonostante la lunga durata della pellicola: il paradosso di una poetessa che sta perdendo le parole, l’immedesimazione “filmica” con la vittima nel finale mentre s’alza il canto (la poesia) d’addio, le equivalenze fra le lezioni e loro applicazione nella vita di tutti i giorni, le coincidenze (Mija incontra il dolore della madre della suicida subito; il poliziotto al circolo dei poeti), il cuore vivo e quello arido (i padri dei ragazzi).