TRAMA
Quasi cinquant’anni di storia italiana (1901-1945), raccontati attraverso le vite di Alfredo e Olmo, amici separati dalla differenza di classe.
RECENSIONI
È singolare che un film così dichiaratamente a tesi possa essere anche tanto spudoratamente divertente. Divertente, beninteso, se si ama la "macchina teatrale" in sé e per sé al punto da tollerare, in suo nome, oltre cinque ore di proiezione incentrate su una sola idea: quanto sono cattivi i padroni. Bertolucci è regista di notevole intelligenza e gusto (benché alcuni suoi film dimostrino il contrario), ma soprattutto è un artista divorato dall'ambizione (dagli esiti più o meno felici). In quest'opera tenta per così dire di salvare capra e cavoli (impegno e spettacolo, scegliete voi a che elemento della metafora abbinarli), raccontando mezzo secolo di vicende italiane, ma soprattutto di lotta di classe, in una cornice da melodramma, cinematografico e non (lo scenografo è Ezio Frigerio, nume del teatro lirico contemporaneo). Il film, dopo il flash forward del prologo, si apre con l'annuncio della morte di Verdi: ma la drammaturgia operistica (meglio, l'immagine enfatica e maliziosamente infedele che il senso comune si è costruito di essa) resta la cifra caratteristica dell'intera narrazione. Ben due personaggi al centro dell'intreccio (Alfredo e Attila) si chiamano come i protagonisti delle opere di Verdi, le musiche di Morricone si adeguano al clima di "intrattenimento culturale", tra sonorità stentoree e romantiche svenevolezze fuori tempo massimo, la fotografia di Storaro fa di tutto per sembrare uscita da una cartolina inizio secolo. Di fronte a questo circo equestre, fatto di masse oranti o minacciose, di contadini che ballano nel bosco mentre i signori lavorano nei campi, di massacri inspiegabili, di pause oniriche, si rimane per un po' sbalorditi, come bambini alla prima visione assoluta: almeno nella prima ora, Novecento è la dimostrazione pratica della potenza del cinema, oltre ogni contenuto e nonostante qualunque goffaggine o forzatura a livello di script. Ma poi ci si accorge che, dietro il trucco, il volto non è poi così intrigante: i personaggi sono tutti d'un pezzo, ottimi o pessimi (e, guarda caso, i pessimi fanno tutti una gran brutta fine), l'intreccio è risaputo, degno di un romanzetto rosa o di un testo scolastico edificante, il lusso della produzione è fastidiosamente ostentato, l'impaginazione data dalla regia un po' troppo leccata.
Il vero problema di questo film non è l'inconciliabilità di spettacolo e idea, ma il dissidio insanabile tra pubblico e privato: mentre la politica, messa in scena secondo stilemi roboanti e pedestri (vedi il "Quarto Stato" sbattuto in primo piano all'inizio del primo atto e il "balletto rosso" del prefinale, tanto sgangherato da essere quasi un'involontaria icona dell'anticomunismo), lascia indifferenti o al massimo un po' irritati, l'amicizia che lega i due protagonisti, sottolineata dalla scena finale che letteralmente annulla il tempo e lo spazio, affascina e commuove. In mezzo a tante banalità, restano alcune trovate originali, realmente sovversive: vedi il nonno ed il nipote che "sparano" sugli altri membri della famiglia. Tra gli attori, solo alcuni riescono a non soccombere al ridicolo. De Niro, per una volta poco istrione, è perfetto, Laura Betti e Burt Lancaster, nonostante l'esilità delle rispettive parti, restano scolpiti nella memoria. Depardieu tutto sommato se la cava, Sutherland sfoggia un ghigno diabolico che lo rende spaventosamente simile all'imbranato Kiefer, la Sanda è una macchietta, la Sandrelli come al solito inascoltabile.