Amazon Prime, Commedia, Recensione

TUTTI GLI UOMINI DI VICTORIA

Titolo OriginaleVictoria
NazioneFrancia
Anno Produzione2016
Genere
Durata95'
Sceneggiatura
Fotografia

TRAMA

Victoria è un avvocato penalista che deve districarsi quotidianamente tra tanti drammi: dal calo del desiderio sessuale agli assalti di un ex marito che prova a sfruttare, anche economicamente, i risvolti scabrosi della loro passata relazione.

RECENSIONI

Victoria è un’avvocata intorno ai quarant’anni. È separata da un tipo con velleità letterarie talmente sviluppate da pubblicare, a puntate, su un blog, la vita – appena, ma proprio appena, romanzata – della ex moglie, non tacendone la tresca, poco ortodossa, con un giudice e le piccole-grandi scorrettezze. Victoria ha poco tempo per sé stessa, trascura le proprie due figlie e la casa e, per colmare il senso di solitudine che non riesce a ricacciare dentro, si è risolta a rimorchiare sconosciuti, di solito strambi, quando non proprio inquietanti, attraverso app di dating. Frequenta lo studio di uno psicanalista, che non sa individuare la chiave profonda dei suoi drammi, e il tavolo di una cartomante che pre-vede sempre i medesimi fatti, come in un loop. A un certo punto, si trova a difendere un vecchio amico accusato dalla compagna di averla aggredita con un coltello.
Detta così, riducendo cioè la sinossi ai minimi termini, l’opera seconda di Justine Triet, recente vincitrice della Palma d’Oro a Cannes per il suo Anatomie d'une chute, potrebbe far presagire uno sviluppo in chiave drammatica che invece viene soltanto lambito (per fare un esempio, nella scena dell’abuso di sonniferi da parte della protagonista), senza che l’aspetto prevalente della commedia ceda mai veramente il passo ad altre istanze e ad altri, più cupi, registri narrativi.

Vi è però, come da classica tradizione (classica in senso francese, ma anche in senso statunitense, se si fa riferimento al cinema agrodolce di Woody Allen come pure a quel piccolo gioiellino in bilico che è Tully o al delizioso, anche dopo tanti anni, One Fine Day), l’accenno di qualche affondo al presente, in una vicenda solo in apparenza tutta introflessa. La storia di Victoria – il titolo originale riporta peraltro solo il nome proprio – è di certo solo la sua storia di donna incasinata, ma è anche, senza manicheismi di sorta, senza sottintesi moralistici, lo specchio di una società che richiede, nello stesso momento, di essere iper-produttivi e in perfetto controllo sui propri gesti e le proprie emozioni, seducenti, ma senza esagerare. Curioso poi che, sia in questo caso che in quello del succitato lavoro di Jason Reitman, con le dovute, sostanziali differenze nella relazione che si va a instaurare, la chiave di volta sia rappresentata dall’arrivo di un/una babysitter, figura-delega quasi scevra – man mano che il velo del senso di inadeguatezza/di colpa comincia ad assottigliarsi – di connotati negativi o di auto-giudizio commiserante.

In una storia semplice, molto semplice (ma è verosimile affermare, non troppo semplice), anche la questione processuale strictu sensu – anzi, le questioni processuali, dato che Victoria deve, allo stesso tempo, difendere l’amico dall’accusa di tentato omicidio e difendere sé stessa dalle calunnie dell’ex marito scribacchino – è poco più che un macguffin, da tanto è esile e laterale, rispetto al vero focus, lo sviluppo che gli viene concesso, o magari funziona come allegoria agonistica: un doppio sforzo per recuperare ciò che è stato disperso/male interpretato. Ciò che infatti rileva di più sembra la capacità di ritrovare progressivamente il tempo dei propri passi, imparando o re-imparando a concedere fiducia a chi ha dimostrato di meritarla (e prima di tutto a una sorta di sé stesso, più autentico possibile): a una scimmia fotografa, per esempio, che svela l’insvelabile, non a un dalmata che agisce per solo impulso istintuale! Simpatico notare come sono di nuovo, dentro la metafora, degli animali a dare un senso altro a qualcosa che, per l’occhio umano, viziato dai suoi bias, non può che avere un significato univoco. Dico “di nuovo” perché un fatto analogo avveniva nell’altra commedia, sempre del 2016, che vedeva, quale protagonista, proprio Virginie Efira, ovvero Un amore all’altezza, di Laurent Tirard. In quell’occasione il cane, un bovaro del bernese in vena di feste, pareva essere l’unico a non fare caso, o meglio, a non ritenere così degna di attenzione, in mezzo a molte altre qualità, la statura ridottissima di Alexandre (Jean Dujardin). Lo stesso elemento era invece una imprescindibile fonte di pettegolezzi e di imbarazzi incrociati per gli essere umani, a partire proprio dal personaggio interpretato da Efira, anche in quel caso di professione avvocata.
Tutti gli uomini di Victoria non porta avanti un discorso particolarmente innovativo sul femminile contemporaneo e si muove perlopiù nel già detto e già visto. Va tuttavia riconosciuto a Triet, oltre a una buona intuizione nel finale, giocato in uno spazio quasi neutro, rottura rispetto ai riti abitudinari, sicuri, di Victoria, di non sottrarsi al rischio di impopolarità, nel suo scegliere di dribblare, in almeno un paio di occasioni, quello che oggi si definirebbe, con un buon margine di approssimazione, il politicamente corretto