Avventura, Drammatico, Recensione

SANCTUM

TRAMA

Per un gruppo di sfortunati esploratori, rimasti intrappolati nelle profondità di un’isola dell’Oceano Pacifico a causa di un’improvvisa tempesta tropicale, trovare un cunicolo che porti alla salvezza sarà quanto mai arduo.

RECENSIONI

una camomilla e un caffè

"Mi sa che stasera per dormire mi ci vorrà un Tavor!" Con rapida sintesi la signora due file indietro ha così commentato la fine del film. Del resto, mettete un gruppo di varia umanità incastrato nelle viscere della terra alla disperata ricerca di una via di fuga, aggiungete la didascalia "ispirato a fatti realmente accaduti" (il produttore e co-sceneggiatore Andrew Wight rimasto intrappolato in una cava sotterranea) e metà dell'obiettivo, cioè intrattenere facendo leva su paure ancestrali, è raggiunto. Ovviamente il contributo della regia è determinante e in questo senso l'australiano Alister Grierson, con la supervisione dell'esperto di profondità marine e 3D James Cameron (qui in veste di produttore esecutivo), fa il suo dovere: sfrutta la claustrofobia dei luoghi e ne sonda i labirintici anfratti amplificando il crescente senso di angoscia della non invidiabile situazione.

Il 3D, in cui il film è stato pensato, e non riadattato, viene impiegato nel senso più maturo del termine, cioè limitandone l'impatto ludico (niente oggetti che arrivano in faccia all'improvviso) e puntando il coinvolgimento sull'aumento della profondità di campo. Sforzo encomiabile, ma non così determinante alla luce del risultato. Manca ancora (dipenderà anche dalla sala in cui il film è proiettato?) quel senso di avvolgimento tanto sbandierato che potrebbe garantire una effettiva immersione a 360º nello schermo e un reale valore aggiunto all'utilizzo della tecnica stereoscopica.

3D a parte, rispetto alla regia funziona molto meno l'impianto narrativo, con un gruppetto di personaggi di modesto interesse il cui fulcro è l'ennesimo conflitto tra un padre e un figlio, giocato sull'abusato contrasto tra ruvidità ed esperienza del primo e bisogno d'affetto e intraprendenza del secondo. A dire il vero, escludendo il duo protagonista, il tentativo di arricchire di sfumature i personaggi, o di camuffare gli stereotipi, si riscontra, con caratterizzazioni poco urlate: non c'è un vero cattivo e nemmeno il ciccione simpatico o la bionda mozzafiato ma superficiale. Anche il countdown delle vittime sacrificali non è così prevedibile e i caduti superano i pronostici. Ciò non basta, però, a donare picchi a una sceneggiatura piuttosto piatta, con nota di demerito soprattutto per i dialoghi a suon di frasi fatte. Tra angoscia e luoghi comuni, comunque, grazie anche alla complicità del cast, ha la meglio la prima. Se la stessa passione per i pericoli della natura avesse contaminato pure il lato umano della vicenda, oltre a indurre al Tavor, il film si sarebbe ritagliato anche un posto nella memoria. In tal senso, The Descent - discesa nelle tenebre docet.

James Cameron affida all’australiano Alister Grierson l’affabulazione di un incidente occorso ad un suo collaboratore (sempre australiano), l’insegnante di immersioni in grotta ed esperto di riprese subacquee Andrew Wight (qui sceneggiatore e produttore), che lo aiutò a realizzare i suoi documentari sottomarini in cui sperimentava le riprese 3D (propedeutiche ad Avatar). Grierson utilizza la stessa macchina da presa stereoscopica Fusion e, con essa, esalta le profondità di splendidi scenari naturali, che siano le foreste, la magnificenza da cattedrale di queste bocche verso l’inferno o i cunicoli claustrofobici alla ricerca di una via di fuga verso il mare. La trama è puro thriller: un incidente dietro l’altro, un survival movie in cui, come da manuale, da un lato c’è un gruppo umano con profili psicologici vari e, dall’altro, l’inventiva degli ostacoli che devono superare. La sottotraccia più abusata è quella del rapporto conflittuale padre-figlio, ma è controbilanciata da un’inedita vena in cui sono descritti un insieme di spietati valori della sopravvivenza: il padre conosce la “legge della giungla” e la mette in pratica in quattro scene “forti”, donando la “dolce morte”, procurandola (non dolce) per salvarsi, facendo poco il galante con il gentil sesso che, per inesperienza, potrebbe mettere in pericolo la vita degli altri. Valori che trasmetterà al figlio in una chiusura molto tragica. Nessuna ipocrisia o compromesso, quindi, nel tema della sopravvivenza: tensione fino all’ultima scena, idee pregevoli (compare anche un carro armato giapponese, crollato dalla superficie) e qualche concessione agli stereotipi del racconto hollywoodiano (la figura del finanziatore, ovvero del giuda che c’è in ogni gruppo in trappola che si rispetti).