TRAMA
Dei monaci buddisti credono che il Dalai lama si sia reincarnato in un bambino di Seattle. Iniziano a insegnargli la vita del principe Siddharta, alla ricerca dell’illuminazione.
RECENSIONI
Il bambino statunitense del racconto è proprio il pubblico cui Bertolucci vuole rivolgersi con questa fiaba dove abbandona, per la prima volta, i toni tormentati del suo cinema, le ambiguità, le tare intellettualistiche, le celate allegorie, gli eccessi letterari. Da un estremo all’altro: siamo di fronte al puro formalismo con povertà di contenuto. Come se l’autore riprendesse, in mala fede, il motto buddista “La forma è vuota, il vuoto è forma”. 35 milioni di dollari, una troupe di 200 individui, per masturbarsi in scenografie, fotografia, effetti speciali, scene di massa, ricostruzioni storiche e fantastiche raffinatissime quanto specchio del nulla. Se, da un lato, era un controsenso parlare di Siddharta e comporre un’opera di difficile lettura, dall’altro l’essere diretti, semplici, chiari, non necessariamente deve andare a scapito della profondità evocativa o della scrittura elegante (vedi l’ottimo Kundun di Martin Scorsese). Infantile, più che per infanti: lo schematismo del racconto è disarmante, la noia dilaga di fronte ad un oggetto pachidermico, lungo, gelido, dove non si sortisce coinvolgimento alcuno. Ecco l’errore più grande: trattare spiritualità e religione impoverendole dei dettami più suadenti; voler insegnare un modo di vivere “altro” ai fanciulli di qualsiasi età (ignari o ignoranti?) e non avere la benché minima capacità di toccare il cuore con calore, emozione. Pacchiano involucro luccicante a mascherare un misticismo pop-corn per mediocre pubblico occidentale. Girato a Seattle, in Nepal e Bhutan, con uno scontato uso dei colori tematici (freddi per gli Stati Uniti, caldi per l’Oriente) e del formato (la ricostruzione della vita del principe Siddharta è girata in 70mm invece che 35mm). Brutto modo di concludere la trilogia orientale bertolucciana, con l’amato tema della ricerca dell’identità.
