TRAMA
1985. Renato Vallanzasca è rinchiuso in una cella di isolamento nel braccio di rigore della casa circondariale di Ariano Irpino. A ritroso nel tempo ripercorriamo la storia del fuorilegge e della sua banda.
RECENSIONI
Alle prese con una materia che è sicuramente più nelle sue corde (lultimo film era stato il disastroso racconto del 68 de Il grande sogno), spalleggiato dalla 20th Century Fox, a dire delle legittime ambizioni di mercato (Romanzo criminale è tra i film italiani più venduti allestero negli ultimi anni), Placido affronta la biografia del famoso fuorilegge confrontandosi con una materia maggiormente elaborata: è Vallanzasca, in effetti, un lavoro più ponderato e sedimentato del precedente, indifendibile film, frutto di una stretta collaborazione con lattore principale: alla stesura finale della sceneggiatura ha contribuito, infatti, lo stesso protagonista, Kim Rossi Stuart, secondo un progetto che combinasse al meglio interpretazione e testo.
Il modello di riferimento è lo splendido Nemico Pubblico N.1 di Richet, ricalcato nella struttura e nella prospettiva attraverso la quale il personaggio viene guardato, senza peraltro vantarne la complessità di disegno e la profondità di tratto. Il film di Placido, per quanto diretto con mestiere, infatti, non si scrolla di dosso certa superficialità e, pur votato al frammento, non fa della sua struttura frantumata un punto di forza, ma una sorta di espediente per rifugiarsi in una facile aneddotica che, sfuggendo alle asperità, rimane sempre nel campo di una rievocazione semplicistica e priva di spessore: le varie tappe della storia del protagonista poco svelano della personalità di Vallanzasca, personaggio costruito sostanzialmente sullazione e che emerge solo per tratti isolati con una certa grossolanità.
Il diario del bandito, percorrendo quasi quindici anni di storia, nonostante si fondi sullaccurata ricostruzione degli ambienti e unattenta scelta degli interpreti, suona come opera ripiegata sull'esigenza primaria dell'attendibilità narrativa: non è dunque questione di agiografie o di mitizzazioni, polemiche vacue che non interessano in questa sede, si parla solo e soltanto di livelli di lettura della materia mostrata, di quanto questo romanzo di formazione alla criminalità rimanga in superficie pur aspirando alla significatività (si guardi lepisodio infantile che apre il film, quello della liberazione degli animali al circo: esso resta un elemento isolato e fine a se stesso e che invece aspira a chiave di lettura di un istinto alla rottura delle regole), di come Placido non rinunci a delle pacchianerie che in un film di DePalma avrebbero un senso (i soldi che volano), ma che in un ritratto che aspira a veridicità e che, al netto di ogni barocchismo, vuole essere aderente al reale rivelano il facile ossequio a un immaginario spettatoriale di basso livello, conseguente testimonianza di unattenzione ai codici di fruibilità che cozza contro la spinosità delle vicende riportate.
La buona confezione (che, a ben guardare, è una trappola luccicante nella quale qualsiasi ambizione filmica soffoca) e la solidità del cast (Timi, il migliore, riesce a conferire un po' di anima al dramma), non nascondono, insomma, l'anemicità dell'idea di cinema sottesa all'operazione.