TRAMA
Il commissario Betti appena giunto a Napoli da Roma si trova subito ad affrontare a viso aperto, come nel suo stile, i “padroni della città”.
RECENSIONI
Napoli violenta è il secondo capitolo di una trilogia pellicolare dedicata al commissario Betti impersonato dall’intrepido Maurizio Merli. La regia di Umberto Lenzi si incunea trai due film di Marino Girolami (girati con lo pseudonimo di Franco Martinelli) Roma violenta e Italia a mano armata nei quali assistiamo, rispettivamente, al sorgere e al tramontare di un commissario di ferro senza macchia e senza paura e dai metodi davvero poco ortodossi, come retorica del genere impone. Lenzi è senza dubbio alcuno uno dei più grandi e capaci attraversatori del pelago di quei generi che hanno contribuito a rendere popolare il consumo dello spettacolo cinematografico pervenendo al poliziesco (macrogenere che in realtà sussume uno spettro di sottogeneri e filoni di vasta ampiezza) nel ’72 con Milano rovente nel quale, forte del successo di film come Milano calibro 9 eLa mala ordina, riproponeva il modello noir dileiano nella descrizione del milieu malavitoso della città meneghina, declinandolo secondo coordinate maggiormente legate a certa spettacolarizzazione della violenza. Al primo episodio delle imprese del commissario Betti di Girolami, sceneggiato da Vincenzo Mannino e prodotto dalla Flaminia Produzioni di Fabrizio De Angelis, Lenzi aveva contrapposto istantaneamente Roma a mano armata, sfruttando l’astro nascente di Merli a cui aveva affiancato come contraltare un pezzo da novanta col nome di Tomas Milian in una delle sue caratterizzazioni più riuscite di sempre, il gobbo Vincenzo Moretto. Sebbene la coppia Merli-Milian fece diversa fatica ad assortirsi sul set, la mossa si rivelò indovinata poiché forse per la prima volta nel poliziesco all’italiana si contrapponevano due figure di enorme statura dando luogo ad aperture diegetiche sostanziate da notevoli approfondimenti psicologici. Inoltre la struttura convulsa e spietata - ideata da Sacchetti - incentrata sui due antagonisti consentiva di concentrarsi oltre che sui caratteri, su un’urbanità più coinvolta, nei suoi ambienti più degradati e nelle sue connivenze più subdole, e dunque più credibile. Fu la società di distribuzione Fida a premere perché si realizzasse un seguito di Roma violenta da affidare alla regia di Lenzi e così il produttore Borrelli chiamò sia Lenzi che Mannino per ambientare la vicenda a Napoli, altra (in ogni senso) dimensione metropolitana che assurge a capoluogo del crimine nella dislocazione cartografica del poliziesco italiano. Il film andò benissimo con i suoi 1868 milioni d’incasso (169 solo a Napoli) e diede il là alla realizzazione di altre pellicole che avessero la città partenopea nel titolo, a cominciare da Napoli spara! di Mario Caiano, autentico clone del film di Lenzi, con Jeff Blynn (sosia di Maurizio Merli) a presenziare nei manifesti per garantire una qualche apparente continuità con Napoli violenta. Napoli si ribella è un tentativo, anche abbastanza riuscito, di coniugare il poliziesco duro e puro con la vis comica territoriale, operazione che non poteva portare ad altri registi se non a Michele Massimo Tarantini, assai versato nell’italica pochade. Napoli...serenata calibro 9 di Alfonso Brescia invece è un’immancabile ibridazione tra poliziesco e sceneggiata napoletana nella miglior tradizione meroliana.
Se al contrario di Milano odia: la polizia non può sparare (sempre di Lenzi) in cui la figura criminale di Giulio Sacchi radunava metonimicamente dietro un’esibita violenza compulsiva e isterica tutta una geografia della malavita urbana, Roma a mano armata collocava in primo piano la problematicità di un personaggio atipico nella sua archetipica crudeltà antiborghese (forse il gobbo rappresenta il carattere più politico che il regista livornese abbia mai concepito), una vera e propria forza del disordine, che entra inevitabilmente in rotta di collisione con un principio di ordine e legalità rappresentato dal commissario Tanzi, e sullo sfondo un nucleo di criminalità tutto sommato omogenea (il medesimo sottobosco dal quale emergerà più tardi la famigerata banda della Magliana) con la quale, ugualmente, confliggere, per metodi, ma soprattutto per principi, Napoli violenta, forse anche in virtù del mutamento di latitudini, presenta uno scenario diverso nel quale il mondo criminale appare più eterogeneo e stratificato. Barry Sullivan, John Saxon e Elio Zamuto incarnano i tre villains atti a rappresentare tre modi distinti di affrontare la situazione di una città segmentata tra il vecchio e il nuovo. Le mani sulla città di Rosi d’altra parte, tanto per scomodare un esempio alto, aveva evidenziato una cesura forte con la vecchia tradizione di guapperia per lasciare spazio al sopravanzare di nuove figure di mafiosi legate alla speculazione edilizia, e se Lenzi, come Caiano, Tarantini, Brescia e altri decide di sfruttare il paesaggio di una Napoli tradizionale (Spaccanapoli, Montesanto, i Quartieri Spagnoli, il molo di Nisida), lo fa quasi certamente per creare in senso antifrastico un accostamento tra retaggio cultural-cinematografico e nuova condizione sociale, incontro che genera funzionalmente spiazzamento. Per il resto, oltre a qualche inserto dai toni smaccatamente thrilling (d’altronde Lenzi era pur noto per il trittico carrolbakeriano Orgasmo, Così dolce così perversa e Paranoia, e due anni prima aveva girato Spasmo) Napoli violenta ripropone un po’ i soliti cliché di un poliziesco indulgente verso certo giustizialismo, mediante l’effige baffuta e corrugata di un Merli sempre pronto a digrignare sicurezza mista ad inquietudine e smaliziato cinismo (Betti infatti non esita a combattere la criminalità con le loro stesse armi, era così con Girolami ed è così con Lenzi, anzi Girolami in Italia a mano armata avrà la sfrontatezza di eliminare Betti/Merli nel raggelante finale in freeze frame, probabilmente come gesto vendicativo nei confronti di chi glielo aveva temporaneamente sottratto), votato all’action movie più scaltra ed efficace. Da non trascurare infine l’ennesima galleria di volti (Guido Alberti, Silvano Tranquilli, Giovanni Cianfriglia, etc.), una sorta di teatro di maschere che funge da paesaggio umano sul quale sovrapporre le spericolate e spregiudicate azioni del commissario.