TRAMA
Suriname. Due fratelli, Benjen e Monie Pansa, partono dalla periferia di Paramaribo per raggiungere un villaggio maroon. Si inoltrano allora nella foresta, imbattendosi in mercati e vecchie miniere illegali. Attraversata la giungla e risalito il fiume in barca, arrivano infine al villaggio. Qui si tiene il più importante rituale mai celebrato dalla comunità dei discendenti di schiavi che un tempo riuscirono a sottrarsi alla cattività imposta dai coloni olandesi. (Dal catalogo del TFF)
RECENSIONI
Ben Russell, antropologo e artista visivo, segue in tredici agili pianisequenza il cammino di due fratelli surinamesi, accompagnandoli lungo il medesimo tragitto percorso dai loro stessi avi in fuga dai coloni olandesi, 350 anni prima. Nei 135 minuti di marcia tutto è silente, misterioso, astratto. Il loro passo regge l'intera opera, richiamando, nel suo diramarsi erratico e quieto, certo cinema di deambulazioni (il mutismo ostinato di Tarr, la quiete inscalfibile di Alonso, la deriva tropicale di Weerasethakul), mentre l'impenetrabile façade etnografica si lascia dominare dall'incanto degli scenari naturali e dal balletto peripatetico di corpi e mdp, con le movenze aggraziate della Steadicam a prendersi cura della pigra odissea. I follow shots di Russell procedono privi di qualsiasi sovrastruttura narrativa e descrittiva, i pochi dialoghi avvertibili non vengono tradotti, i più elementari appigli documentari latitano e l'inquadramento storico-ambientale si limita alla sola didascalia in esergo, da cui il film trae il proprio stesso titolo - Lascia che ognuno vada dove può: con questa frase Dio intervenne, secondo una favola orale surinamese, ad emancipare gli schiavi dall'odiato giogo coloniale. Chiaro invito a liberare lo sguardo insieme al movimento delle sue figure, Let each one go where he may si presenta calmo e ondivago, apparentemente inerte come studio antropologico e più vicino alla poesia di un silenzioso diario di viaggio (sul modello dichiarato del meraviglioso D'Est di Chantal Akerman), o all'esplorazione accidentale di una moderna deriva psicogeografica, utopica messa in pratica dei proponimenti lettristi. Ma dietro l'esibizione di tanta naturalezza, punteggiata dalle voci nitide dei luoghi percorsi (foreste, miniere, mercati cittadini) e dall'occasionale ricorso ad altri mezzi di trasporto (barca, autobus, escavatrice), si cela un'obliqua riflessione sulle abitudini auto-assolutorie del cinema antropologico, da declinarsi necessariamente, secondo Russell, in senso sperimentale.
La questione è nota: come liberare lo sguardo etnografico dalle residue velleità scientiste e colonialiste? In superficie, Russell sembra rifarsi all'etnografia partecipativa di Jean Rouch, convinto della necessità di attivare i propri soggetti portandoli a partecipare alla realizzazione dell'opera stessa: a parte significative eccezioni (dove la Steadicam di Chris Fawcett perde di vista i protagonisti, per ritrovarli poco più tardi, altrove), la rappresentazione segue ubbidiente gli spostamenti dei fratelli Pansa, al punto che questi ultimi paiono dirigere i movimenti della mdp. Ma nelle atletiche carrellate a seguire e nel disegno registico netto, quasi coreografico, il documentario tradisce un'orchestrazione accurata, trovando ulteriore conferma nel sorprendente finale in maschera, in cui la sequela di lavori manuali sino ad allora mostrati sfocia in uno spettacolo folkloristico ad uso e consumo dei turisti/spettatori. L'incerta parabola sembra così scissa tra fiction e dato reale, dove l'affondo ludico-critico sulla libertà ingannevole si traduce in metafora immediata (la fuga/migrazione va pagata col lavoro/schiavitù).
Il gioco etno-situazionista, evidente sin dal suo stesso titolo, può dunque scoprirsi: i fratelli surinamesi sono liberi di andare dove possono, non dove vogliono, restando ancora vincolati ad un preciso iter registico/coloniale, incatenati ad una rappresentazione che li pretende muti, meri performer. Senza ricorrere alla ferocia di Unsere Afrikareise di Peter Kubelka, dove l'austriaco détournava un safari su commissione in caustico pamphlet sull'etno-pornografia occidentale (quasi un amaro controcanto ai mondo movie italiani), Russell intende sì bruciare la distanza scientifica frapposta tra osservatori (bianchi) e osservàti (colonizzati e reificati dallo sguardo dell'antropologia tradizionale, oggetti dello studio filmico), ma ricordandosi di puntualizzare, non senza ironia, l'arbitrarietà della sua stessa prassi. Rispetto al claustrofobico ingorgo segnico di Kubelka, l'appunto autocritico risulta particolarmente lodevole in un'opera, come Let each, più sensibile al fascino della natura che non al potere dell'artificio, dove le lunghe scene si riducono ad un unico, limpido movimento e le immagini sono depurate da spiegazioni, commentari e paratesti. Così come in D'Est, anche nel film-deriva di Russell si è costretti a fare a meno della parola, non traducendola nelle sue rade intrusioni e preferendo orientare chi guarda verso una fruizione incontaminata, primigenia, da cinema delle origini. È esattamente ciò a cui mira il progetto filmico dell'americano - mettere in scena il presente attraverso il linguaggio puro e universale del cinema primitivo, senza dimenticare di ribadirvi, qualora la sua morale d'artista/etnografo lo ritenga necessario, la lucida consapevolezza dei propri limiti e delle proprie finzioni.
Let each one see where he may|La duplice libertà vale, naturalmente, anche per chi guarda. Nelle sue spossanti carrellate come nelle tre, interminabili, riprese fisse, il lungometraggio d'esordio di Russell è tanto esigente quanto generoso: l'estrema durata delle inquadrature pretende una devozione sine pari e permette un'immersività altrimenti impossibile, si serve dell'immanenza del long take per lasciarsi abitare in inammissibile coalescenza, costringendo l'incauto spettatore ad accompagnare una marcia di cui non sa nulla, per ripagarlo, al termine di un crescendo allucinato, con una ritrovata libertà percettiva. Poema di cammini incrociati, divergenti e paralleli, Let each one go where he may traspone in lungometraggio il paradosso di una poetica del reale visionaria e insubordinata, già espressasi magnificamente con le potenti archeologie del presente raccolte in Recent Anthropologies.
Vincitore del premio Cult come miglior documentario internazionale («un film che sovverte i cliché del cinema etnografico e che, attraverso una sensibilità che è allo stesso tempo onirica e irriverente, affascina e provoca.»).
