TRAMA
Periferia di Seoul, notte. Kyung-chul, assassino seriale di giovani donne, uccide Ju-yeon, fidanzata in stato interessante di Soo-hyun, agente dei servizi segreti. Approfittando della collaborazione del padre di Ju-yeon, ex capo della criminale, Soo-hyun si mette sulle tracce del serial killer. Obiettivo: fargliela pagare cara, infliggendogli sofferenze di gran lunga superiori a quelle procurate alla ragazza.
RECENSIONI
Quella dei criptoremake è una categoria ben nutrita: giusto per fare qualche titolo Lultima casa a sinistra (Wes Craven, 1972) attinge a piene mani dalla Fontana della vergine (Ingmar Bergman, 1960), The Killer (John Woo, 1989) melodrammatizza Frank Costello faccia dangelo (Jean-Pierre Melville, 1967) e, più vicino al rifacimento conclamato, The Happiness of the Katakuris (Takashi Miike, 2001) proietta The Quiet Family (1998) del nostro Kim nella sfera della fantasmagoria. Ebbene, a prima vista I Saw the Devil potrebbe arricchire la rosa, con la necessaria precisazione che i film rielaborati sono tre e non uno solo. Già, perché il sesto lungometraggio diretto da Kim (ma il primo a non recare la sua firma nella sceneggiatura) dà limpressione di ricalcare inizialmente le orme di Henry pioggia di sangue (John McNaughton, 1986) per imboccare il sentiero di caccia di Manhunter (Michael Mann, 1986) e raggiungere infine la postazione persecutoria di Cape Fear (Martin Scorsese, 1991).
Eppure si tratta di unimpressione transitoria, ché I Saw the Devil si smarca progressivamente dalle piste tracciate per inoltrarsi nelloscura imprevedibilità della vendetta. Forte di un minutaggio consistente (144), il film di Kim non si limita alla raffigurazione del modus operandi di un serial killer, non si dedica esclusivamente alla descrizione particolareggiata della complessità dellindagine né si concentra principalmente sui risvolti morali della giustizia privata, ma esplora le dinamiche psicologiche che si creano tra cacciatore e preda, fissandone incisivamente i ruoli per poi ribaltarli allimprovviso e privarli finalmente di senso. Se la pulsione punitiva di Soo-hyun (un Lee Byung-hun mai così torvo) si nutre del senso di colpa per non aver soccorso la fidanzata in difficoltà, il programma vendicativo messo in atto lo trasforma internamente, facendo emergere il suo lato oscuro, la sua mostruosità. Per dirla con le parole del detective a capo delle indagini ufficiali: diventa un mostro combattendone uno.
La caccia allassassino lo trascina in un vortice di violenza non privo di un piacere perverso: cattura Kyung-chul, lo tortura e lo libera aspettando che si rimetta in sesto per poi aggredirlo di nuovo. È il suo modo di tenere fede al giuramento pronunciato sulla lapide della fidanzata: infliggere al suo assassino sofferenze centuplicate. Ma, come gli ricorda la sorella di Ju-yeon, la vendetta va bene per i film e abbandonarvisi ciecamente finisce per scatenare reazioni imponderabili. Cosa che accade puntualmente negli ultimi quaranta minuti di Akmareul Boattda, nei quali la punizione degenera prima in sfida senza quartiere e quindi in maledizione, coinvolgendo perfino i familiari di Kyung-chul. La mancata catarsi finale non fa che sancire il processo di svuotamento cui è sottoposto il tema principe del New Korean Cinema. Il pianto terminale di Soo-hyun gronda ambiguità: le sue sono lacrime di sollievo per essersi liberato dal senso di colpa o scaturiscono dalla disperazione per essersi spinto troppo lontano dalla promessa iniziale? Non è dato rispondere univocamente, ma è indubbio che lepilogo non comunica un senso di pienezza consolatoria o di riparazione rasserenante: lultima inquadratura esprime una penosa, vacillante sensazione di vuoto.
Stante la tematica vendicativa e la presenza di Choi Min-sik nei panni del carnefice/vittima, I Saw the Devil ingaggia ovviamente un duello intertestuale con Old Boy: se nel film di Park Chan-wook Oh Dae-su impugnava un martello e affrontava gli avversari in un corridoio che si dispiegava orizzontalmente, qui Kyung-chul, nel primo corpo a corpo con Soo-hyun, combatte con una falce in uno spazio che si sviluppa in profondità. Anche The Chaser di Na Hong-jin, film rivelazione del 2008, è chiamato in causa, essenzialmente per il tumultuoso dinamismo della messa in scena e per la truculenza delle aggressioni (corpi smembrati, tendini tranciati da bisturi, teste fracassate). Il gioco intertestuale non si ferma al dialogo coi film altrui: il personaggio di Soo-hyun non è che la prosecuzione ideale del protagonista di A Bittersweet Life (anchesso interpretato da Lee Byung-hun), i primissimi piani leoniani nello scontro della serra rimandano a The Good, the Bad, the Weird, la casa degli orrori in cui trova temporaneo rifugio Kyung-chul rievoca la sinistra locanda di montagna di The Quiet Family e il tema della doppiezza psicologica, ossessione cardine del cinema di Kim (quella dellidentità), si riallaccia figurativamente a Two Sisters (non è affatto fortuito che Soo-hyun entri in scena con unimmagine allo specchio: soggetto doppio fin dalla sua prima apparizione).
Ma il film di Kim che presenta maggiori analogie con Akmareul Boattda è senza dubbio The Foul King: non tanto sul piano tematico, naturalmente, quanto su quello estetico. Come nel film del 2000, lo stile di I Saw the Devil sprigiona una fisicità immediata e atletica senza ricorrere a stridenti artifici digitali e, soprattutto, non esita a sporcarsi le mani con la materia manipolata. Accantonati i preziosismi estetizzanti di A Bittersweet Life e i virtuosismi mirabolanti di The Good, the Bad, the Weird, Kim ripiega su una regia più disadorna e ancillare alla vicenda rappresentata, scoccando inquadrature a piombo, saettando soggettive rasoterra, centellinando movimenti di macchina calibrati al millimetro e scaraventando la camera a mano nellinfuriare della lotta.
Fotografia soffocante e tambureggianti scene dazione, Akmareul Boattda non risparmia nulla in fatto di violenza e particolari raccapriccianti (smascellamenti a mani nude, esplorazione delle feci, guance trapassate da cacciaviti). Ma il vero pezzo di cruenta bravura è un terribile assalto allarma bianca nellabitacolo di un taxi: una sequenza di tre minuti che sprizza tensione e sangue da tutti i pori, mentre la cinepresa vortica avidamente attorno ai corpi trafitti. Per vedere una scena altrettanto impressionante, occorre risalire a The Moon Is
the Suns Dream (1992), film desordio di Park Chan-wook nel quale figura un furibondo corpo a corpo a colpi di coltello sul sedile posteriore di una macchina.
Chiaramente tanto sfoggio di squisita ferocia non poteva lasciare indifferenti i difensori della morale: ricevuto per ben due volte il visto più restrittivo dalla Korea Media Rating Board, visto che di fatto bandiva il film dalle sale coreane, Kim è stato costretto ad apportare alcuni tagli (sette in tutto per lammontare di 80 secondi) al fine di rimediare un più blando teenager restricted e guadagnarsi luscita in sala (fortunatamente la versione internazionale è quella integrale). Ulteriori restrizioni estetiche per una pellicola tutto sommato anomala nella rimarchevole filmografia di Kim Jee-woon: per la prima volta il quarantaseienne cineasta coreano traduce in immagini una sceneggiatura non sua (il che gli ha comportato lassillo della precisione) e per la prima volta incappa nelle limitazioni della censura. Ciononostante Akmareul Boattda preserva integralmente il talento cinematografico del più dotato regista sudcoreano in circolazione, comprese le parentesi di umorismo grottesco cui ci ha abituati, e sciorina un prefinale di venti minuti abbondanti in cui il montaggio alternato squaderna un testa a testa a distanza destinato a rimanere a lungo insuperato. Vincitore di tre Blue Dragon Film Awards: migliore fotografia, musica e illuminazione.