TRAMA
Michel Gondry narra della vita della zia Suzette e della relazione della donna con il figlio Jean-Yves.
RECENSIONI
Quello di Gondry non è, come sembra, solo un piccolo documentario, ma una nuova tessera nella decodifica di un mondo autoriale sempre più definito e leggibile: si è già detto altrove di quanto lesperienza personale e il vissuto del regista abbiano un ruolo fondamentale nella sua produzione (anche in quella dei videoclip), di come il suo percorso esistenziale si rifletta in modo evidente sia nella poetica visiva (la tenace evidenza artigianale della fattura) sia nelle tematiche prescelte: questo lavoro mette tali dati definitivamente a nudo perché il racconto dellesperienza di vita della zia non ha nessun sottotesto, nessuna doppia lettura, nessuna emblematicità, è solo la rappresentazione di un frammento significativo del mondo interiore ed esteriore del regista che, attraverso la storia di Suzette, mostra molto di sé, della sua formazione, del suo retroterra, della sua infanzia, quellinfanzia il cui spirito aleggia in tutto il suo lavoro.
Insegnante allavanguardia nel piccolo mondo della provincia francese, la protagonista racconta la sua vita e un trenino, che poi scopriremo costruito dal figlio, passa di stazione in stazione (e di stagione in stagione), dal passato più lontano ai giorni nostri.
Gondry ci illustra questo viaggio spaziotemporale, attraverso gli anni e attraverso tanti luoghi, per mezzo delle parole della protagonista, del figlio, degli alunni di lei, le polverose immagini di un passato ancora vivo, vecchi filmati recuperati, ricordi condivisi, testimonianze recuperate. E tutto è lievemente gondryano: la reinvenzione di un insignificante momento domestico, il ricorso allanimazione in stop-motion per descrivere un percorso in montagna o al preistorico chroma key per rendere invisibili gli abiti dei bambini, la ricostruzione del cinema nel punto in cui tanti anni prima esso si trovava (cfr. il finale di Be kind rewind); si include, nel generale dato di autoevidenza cinematografica, persino una sorta di making of (il reperimento di una sedia a rotelle usata come carrello per la mdp).
Ciò che appare universale in Lépine dans le coeur non è tanto il racconto familiare che in esso si dipana, quanto il carattere domestico della narrazione, il modo in cui questo film si avvicina ai protagonisti e che è, né più e né meno, quello di un home movie assemblato con amorevole partecipazione e infine mostrato innanzi tutto a chi vi ha partecipato, un racconto doloroso che attraversa un lutto e il rapporto teso e irrisolto tra la donna e il figlio depresso, la spina nel cuore di Suzette. La donna si è detta rammaricata perché dal documentario non ha visto emergere la sua gioia di vivere non condividiamo , ma - e in questo cè tutto Gondry - lo sconfinamento della pellicola nella vicenda del figlio Jean-Yves (patito di filmini in Super 8 e di modellismo, capito?), non previsto nei patti iniziali, avviene naturalmente, inevitabilmente, senza possibili strumentalizzazioni sentimentalistiche, tanto da determinarne il titolo. Lépine dans le coeur si scopre quindi un documentario semplice e poetico perché non dimostra nulla a parte lessere il cinema una possibile, anche scomoda a volte, macchina della memoria che impasta sostanza emotiva, in un'opera che non raffina nulla (tutte le imprecisioni e i difetti del girato sono parte integrante del suo spirito), che arriva a mostrare senza mediazioni opportunistiche, senza protezioni pretestuose, senza ammicchi vendibili il suo cuore nudo che pulsa.
→ Monografia Tascabile: Michel Gondry
Diciamo la verità: l'autorialità, specie quella più familiare, porta con sé tracce, indizi, segni e ammiccamenti che ci suggeriscono vie traverse e oblique o addirittura vere e proprie circumnavigazioni della pellicola di turno, verso lidi tanto ameni quanto poco attinenti con le circostanze sottoposte alla nostra attenzione.
Il filmino della zia di Gondry ne è un esempio addirittura radicale. Perché costringe, docilmente, a richiamare piccoli, sparsi tic stilistici dell'Autore noti per ben altri lavori e ci travia su meditazioni organiche, storiche, biografiche – distraendoci e allietandoci durante il delicato, tenero e noioso dipanarsi degli accidenti di famiglia. Ma – qui è la radicalità dell'esempio – il contesto giganteggia sul documentario e le cose buone de L'épine dans le coeur (tranne una, Suzette, e la sua naturale, portentosa cinematograficità) trovano tutte il loro senso autentico fuori dal testo: Gondry che apre all'intimo; il fai-da-te spoglio come vizio di famiglia; le piccole trame che si riallacciano alle opere precedenti, soprattutto all'Arte del sogno e a Be Kind Rewind; eccetera. Il tono dei “personaggi” è bellissimo: delicato, naturale, veramente naive senza i filtri necessariamente cosrtuiti delle opere di fiction. Ma i guizzi stilistici suonano integralmente sforzati (quasi a tradire la consapevolezza di dover allietare lo spettatore con dosi di vero gondrismo): l'inserto del chroma key è inesplicabile e piomba in mezzo al film come puro momento identitario (sono Gondry, quello degli effetti speciali vintage); le due animazioni in stop motion sì, sono carucce; la proiezione del vecchio film tutti assieme è - vedi sopra: via obliqua al contesto. E le piccole, continue infrazioni alle regole di confezionamento (si mostrano brandelli di prima e dopo il ciak; personaggi che parlano con la troupe; gente che attraversa l'inquadratura saltellando) hanno tutta l'aria di un grido d'aiuto: che qualche maldestra bizzarria formale ci salvi dal pigro costrutto drammatico che stiamo mettendo assieme.
Della vitale, energica, mitica Suzette a chi interessa? Le sue risate sono contagiose, la sua presenza scenica è fenomenale, la sua consapevolezza del dispositivo più profonda di quel che lascia trasparire. Ma il giro delle scuole è pigro, sciatto (ma per accidia non per vezzo); il senso dell'operazione si perde dopo poco; i dubbi finiscono per prevalere. Lo spunto formidabile balena a un certo punto: Jean-Yves, il figlio di Suzette, esce dal bagno e trova la porta bloccata dallo stendipanni e si mette a strepitare. L'episodio avviene lontano dall'obiettivo, durante la vita non-filmata della famiglia Gondry, ma colpisce tutti (soprattutto per il vociare bimbesco e stridulo di Jean-Yves). Decidono di ricostruire l'evento: una drammatizzazione, una messa in scena (poco convincente, incongrua). L'idea è bellissima e punta al cuore di uno dei nodi più importanti della poetica di Michel Gondry: la rielaborazione filmica (e inautentica, personale, balorda, bizzarra, gioiosa, melodrammatica, fantastica) della memoria (qui il discorso sarebbe troppo ampio e merita spazi e tempi più morbidi). Forse, l'applicazione di quest'idea (e della sua forza) alla memoria biografica e familiare (lo fa, in alcune sequenze micidiali, Guy Maddin nel bellissimo My Winnipeg) avrebbe potuto riservarci effetti scardinanti. Lo so, è un altro film.