TRAMA
Un tipografo in lutto. Un pedofilo in libertà vigilata. Le loro vite si sfiorano quasi quotidianamente.
RECENSIONI
Occhio puntato sulla vita di due uomini che sembrano distanti e che sono invece legati dal passato prossimo con un filo doppio di colpe, rimorsi e dolore, il film contempla la loro quotidianità con occhio clinico e distaccato: entrambi alla ricerca di uno stimolo che risollevi il loro stato vitale, svolgono male i rispettivi lavori, tirano avanti un'esistenza che è diventata vuota e priva di senso. Ad essi si aggiunge la storia di una bambina senza genitori e, pur seguita dalle istituzioni, sostanzialmente abbandonata a se stessa; intanto si inseguono al telegiornale le notizie su un maiale che vaga per la città e che non si riesce a catturare. I dati frammentari, man mano che il film va avanti, si incastrano uno con l'altro, costruiscono un senso unico, finiscono col convergere nello stesso punto narrativo (un incidente stradale, causato dal suino, che fatalmente chiuderà tutte le storie): la bambina, possibile preda sessuale, viene investita; il pedofilo, alla guida del taxi assassino, muore nella medesima circostanza; il tipografo, dopo aver usato la lama - che doveva servirgli per punire l'assassino della figlia - per liberare l'uomo dalla corda alla quale voleva impiccarsi, sfumata con l'incidente la possibilità di una vendetta, ritorna al suo tombale appartamento dove più nulla lo attende (lo scenario familiare si rivela fallace: la figlia, che la moglie si ostina a chiamare, è per l'appunto morta, uccisa a suo tempo dal pedofilo).
Nessun artificio scenico, nessun supporto musicale extradiegetico, il film, girato con aderente camera a mano, riporta la quotidianità alienata di questi animali rinchiusi nello zoo cittadino che fa da sfondo al ritratto di un'epoca di crisi (il cantiere che non paga, la tipografia costretta al licenziamento), in cui la precarietà domina (lavori improvvisati, una casa che sta per essere abbattuta nella quale, come in un film di Tsai, ci si serve di bottiglie d'acqua riempite all'esterno), la povertà è dietro l'angolo, la microdelinquenza è una costante, la violenza si manifesta con fiammate improvvise, l'indifferenza e il cinismo sono cifre umane dominanti. Molto vicino alle strutture narrative di Egoyan e a certi quieti simbolismi di Kim Ki-duk, giocando sulla frammentazione narrativa, su simultanei punti di vista e salti temporali, Animal town, secondo atto di una trilogia metropolitana, è un film dolente fatto di personaggi rinchiusi nella gabbia di un dolore personale troppo grande perché possa farsi spazio all'altrui comprensione, in cui il regista, ossequiando uno schema fin troppo evidente, riesce comunque a restituire la sostanza dei drammi esistenziali messi in scena, dimostrando una chiarezza di idee che rimane pregio maggiore di una pellicola che non manca di incertezze di scrittura e dilatazioni in eccesso. Il finale, con la moglie del tipografo che si dissolve, aggiunge una nota ridondante all'ordito e un'ambiguità sbilanciata di cui, narrativamente, non si avvertiva alcuna necessità.