TRAMA
La nascita e l’esplosione di Facebook, raccontata attraverso le cause civili intentate dai colleghi di Harvard al misantropico programmatore informatico Mark Zuckerberg.
RECENSIONI
P(ani)C Room
I don't care if it hurts
I want to have control
I want a perfect body
I want a perfect soul
I want you to notice
When I'm not around
You're so fuckin' special
I wish I was special
But...
(Creep, Radiohead)
L’incipit, il dialogo tra Mark ed Erica (ovvero la chat facebookiana – se ne noti lo sviluppo sfasato e il ritardo di una battuta tra call & response -: sembrerebbe una ricostruzione romanzata di una conversazione virtuale, che ne riproduce alla lettera le dinamiche attraverso un campo-controcampo serratissimo e, mai come in questo caso, significativo) pone immediatamente l'amicizia come primo blocco tematico del film. Chiedere l’amicizia è da sempre l'espressione più criticata di Facebook, una formula che sembra profanare, collegata al facile meccanismo di un banale clic, un sentimento profondo e nobile, atavicamente e concettualmente intangibile. E il rapporto tra Mark e il suo sodale Eduardo - legame non idealizzato, fatto di silenzi, slanci, omissioni, sincerità, impulsi sani e insani - è l’amicizia “piena” del protagonista contro il vuoto che lo circonda, vuoto riprodotto nell’asettica struttura di Facebook, fruita, quasi sempre letteralmente, da una community entusiasta, subita dunque nelle sue logiche, e solo a volte usata come reale opportunità, strumento da dominare e piegare a scopi di sana socializzazione, ché, al contrario, risulta perverso mezzo di alimentazione del proprio individualismo, in cui la socialità non è il fine, ma lo strumento per elevare in un contesto più ampio il grido io!, ingaggiando la disperata ricerca di un riconoscimento, piegandosi all’elemosina di un aggettivo o soccombendo al puro voyeurismo dell’altro, in un magma virtuale in cui sociale è solo il contesto e quasi mai la dinamica; lo stesso varrà per Mark: messo a punto il meccanismo, perché fosse innanzi tutto lui a usarlo per lo scopo per il quale veniva idealmente approntato, in nome di esso e della sua rivendicata creazione, arriva a strumentalizzare la sua unica vera amicizia, acquisendone tante altre fittizie.
In questo senso The social network è un film realmente contemporaneo - e dunque profondamente fincheriano -, riuscendo a far venire al pettine un nodo sintomatico della nostra epoca: Internet - e Facebook, come sua massima espressione social - non ha creato solo un ambiente virtuale nel quale incontrarsi, ma soprattutto l’illusione di una pura perfezione dei rapporti in cui ciascuno mette in gioco la sua migliore immagine preservandola da ogni minaccia, tenendola lontana da qualsiasi macchia la possa intaccare o addirittura creandone una fittizia e lontana dalla realtà, tanto più aliena(ta) quanto più grande è il desiderio di piacere che arde nel suo artefice, un contesto artificiale in cui le relazioni personali più importanti della nostra vita si confrontano, ad armi pari, con quelle di centinaia di sconosciuti, esattamente come succede a Mark nello svolgimento degli eventi che lo condurranno a mettere in piedi Facebook.
E’ in questo sondare le vicende che portano alla creazione del social network, individuando in esse i germi delle caratteristiche primarie dello stesso e usandone i moduli per rappresentarle, che il film mostra tutto il suo potenziale di ritratto epocale in cui Facebook non è il soggetto centrale (si vede poco o niente), ma lo strumento utilizzato per dipingerlo:
* RICHIESTA DI AMICIZIA: di Sean a Mark;
* CHAT: il già menzionato incipit;
* USERS: molteplicità di voci e conseguenti punti di vista (i narratori che mutano);
* LIKE ed UNLIKE: girandola di entusiasmi e delusioni e, dunque, all’inizio Non piacerai non perché sei un nerd ma perché sei un grande stronzo (Erica) e alla fine Non sei uno stronzo, Mark, cerchi solo ostinatamente di esserlo (Marylin);
* TAG: intrusività dell’utenza (Mark che penetra negli archivi degli istituti universitari mostrando le FOTO delle inconsapevoli studentesse);
* CONDIVIDI: idee altrui riciclate (al collega Billy Olsen della Kirkland House Mark si ispira anche per l’embrione facebookiano Facemash);
* RELAZIONE COMPLICATA: quella tra Eduardo e Christy;
* sputtanamenti pubblici: la storia della gallina;
* EVENTI: la gara di canottaggio, metafora della competizione prettamente maschile che domina l’intero film, una sorta di rovesciamento fisico di un agone intellettuale (spaventosamente incerto) in cui non c’è spazio per il femminino;
* NOTE: nei dibattimenti vi è la lettura a posteriori e meditata di quanto accaduto;
* reiterazione delle formule;
* confusione tra vero, falso, idealizzazione, edulcorazione dei fatti narrati etc etc
Fincher, coerentemente, non può che proporre un ritratto ambiguo, del quale non è data alcuna certezza assoluta: lo STATO di Mark Zuckerberg ce lo mostra brillante, intelligente, geniale, ma in virtù della narrazione altrui (COMMENTI) non appare come il limpido esempio che il cinema americano celebra tipicamente: umorale, vendicativo, manipolabile, egocentrico, arrivista fino all’indifferenza per l’altro, ossessivo fino al disadattamento (Jesse Eisenberg è magnifico nel contraddire la sua apparenza di simpatico geek con un raffinato acting che manifesta tutte queste inflessioni). In The social network il godereccio e antipatico Sean Parker (perché così reso dalle parole di Eduardo, NOTIFICHE), già inventore di Napster, ritratto come un diabolico opportunista in odor di Ellis, può contare su una nuova, immensa ricchezza nonostante l’affare della cocaina (sciocchezze, certo, ma cose grosse agli occhi di un’opinione pubblica, quella americana, che certe cose non le perdona – LINK -); l’amministratore virtuoso e ingenuo può venire fregato dal suo migliore amico (non mi piace più) che alla fine dei giochi (altro che contrappasso) diventa il più giovane miliardario del pianeta.
Fincher, alle prese con un sapido copione di Aaron Sorkin (a cui poco importa della verità storica, essendo preoccupato, giustamente, della resa filmica), piega la sua attentissima regia alle ragioni della narrazione, e se raggiunge un equilibrio e una sintesi che non si riscontravano dai tempi di Panic room (e The social network, a ben guardare, nel descrivere un ambiente figlio dei nostri tempi – la camera con un computer - non è un film meno claustrofobico; Erica: le stronzate maligne le dici da una stanza buia perché ormai quelli come te sfogano così la rabbia), rimane anche vittima della macchina della scrittura, tanto da non reggere con la stessa costante brillantezza le due ore di durata.
La prima parte, da questo punto di vista, col suo narrato veloce e cinetico, rivelandosi un flashback condotto a vari livelli, è quella più riuscita, di ottima tenuta spettacolare nel suo coniugare le istanze di certo cinema anni 80 (i film di ambiente collegiale), stante il contesto di riferimento, con la restituzione di un affresco contemporaneo. Non manca, nel ritratto del nerd Mark, certa morale coerente da filmetto americano: la sfortuna in amore è sempre la molla di tutto (I’m a creep/ I’m a weirdo sentenzia la versione a cappella del brano dei Radiohead che compare nel trailer), la voglia di riscatto, la vendetta misogina, l’ingegno che si aguzza muovono sempre da qualche delusione erotico-sentimentale e il pompino-prima ricompensa si colloca nello stesso alveo narrativo e di genere; questa applicazione se da un lato non è affatto lontana dal consueto discorso fincheriano dell’individuo solo e disperato in rapporto difficoltoso con la società e che combatte con le armi che gli sono toccate in sorte, dall’altro diviene ulteriore modello espressivo per veicolare i temi in gioco.
Insomma, tutte queste tracce, associate agli elementi tipici del film processuale e di quello biografico, condite con la riflessione contemporanea (la fredda investigazione del lato oscuro del capitalismo di questo millennio di cui parla Zambenedetti, cioè un capitalismo tutto nuovo che manifesta la sua fragilità e pericolosità proprio perché riesce a dare asilo a delle scalate così vertiginose e istantanee, un capitalismo che mostra feroci e insensibili non degli squali esperti e scafati, ma dei giovani universitari che, col loro carico di immaturità e inesperienza, vengono elevati al rango di protagonisti di vicende di alta finanza) fanno di The social network (attenzione: non Facebook, ma il ben più pregnante e significativo a molti livelli La rete sociale) un film che, dietro l’apparenza del semplice apologo, nasconde una ricca complessità tematica e morale: Fincher, dunque, se da un lato torna al suo stile, quello incisivo dei primi lavori, in cui visivo è il dato pregnante, attraverso un’opera curata nel dettaglio, aderente al narrato, immediata senza essere superficiale, in cui tutto, dalle splendide musiche di Trent Raznor e Atticus Ross alla impeccabile direzione della fotografia di Jeff Cronenweth, si incastra funzionalmente, scevra dai pesanti sottotesti e dalle letture ingombranti e palesi degli ultimi due lavori, dall’altro, tende a suggerire molti di questi elementi senza farli emergere, rimanendo essi a livello di pure suggestioni.
I’m CEO, bitch!
Attesissimo e già molto discusso, il nuovo film di David Fincher si inserisce in quel filone di cinema americano che nella prima decade del nuovo millennio si ripropone di raccontare e analizzare fatti storici recentissimi e personaggi pubblici ancora in vita o perfino all’apice della popolarità. Il grande maestro della provocazione politica Oliver Stone si pone alla testa di questa tendenza, proponendo come sempre un’interpretazione molto personale e a volte discutibile della storia e dei suoi maggiori attori con due pellicole hanno diviso la critica, World Trade Center (2006) e W (2008). E se la biografia Milk (2008) può sembrare una storia troppo remota, sicuramente altre due pellicole firmate da Gus Van Sant, Elephant (2003) e Last Days (2005), si possono annoverare nel genere. Una simile osservazione si può fare anche per il britannico Paul Greengrass, che attraversa agevolmente l’oceano Atlantico per raccontare, con la dovizia del cronista, la tragica vicenda del volo United 93 (2006) e l’invasione americana dell’Iraq (Green Zone, 2010), dopo avere ricreato le vicende del famigerato Bloody Sunday (2002).
In The Social Network Fincher non rinuncia alla sua palette di colori, vero unico trait d’union di tutte le sue pellicole, affidata questa volta a Jeff Cronenweth, storico collaboratore del regista. Dal punto di vista stilistico però Fincher si trattiene molto, e consegna una pellicola quasi da manuale (osservazione che in conferenza stampa al New York Film Festival lo infastidisce un po’), narrata in modo rigoroso e classicheggiante, con pochissime concessioni a stilemi e divertissement visivi. Il film sta tutto infatti nella rapidissima, rocciosa sceneggiatura di Aaron Sorkin, che ricostruisce minuziosamente il mondo di Harvard e il suo linguaggio: competizione, classismo, circoli studenteschi esclusivi, tradizione, sesso e denaro sono gli elementi principali di questo microcosmo che obbedisce a regole interne inflessibili. Mark Zuckerberg, interpretato da un Jesse Eisenberg perfetto, è un prodotto di quest’universo in cui la pressione sociale è enorme e il networking può fare e distruggere una persona. Ma Sorkin e Fincher si guardano bene dal raccontare la nascita di Facebook come la creatura di un genio scontroso e ribelle; tutt’altro. Ispirandosi apertamente alla struttura di Rashomon, The Social Network moltiplica i punti di vista seguendo i verbali delle cause civili intentate a Zuckerberg dai suoi colleghi dell’università che, in un modo o nell’altro, sostengono di avere preso parte alla concezione e allo sviluppo del sito stimato oggi 25 miliardi di dollari. Il film quindi destabilizza quello che è il mito di fondazione preferito dall’imprenditore americano, quello dell’idea brillante nata in un dormitorio studentesco e trasformata in oro dietro la saracinesca di un garage, il mito di Apple e di Microsoft, il mito del self-made man a 32 bit. Sorkin e Fincher ci invitano a guardare dietro a questa maschera perbenista, dove in realtà vi si trovano negoziazioni tagliagola fra ex-migliori amici, avvocati, cupidigia e invidia. The Social Network non si propone di spiegare il fenomeno di Facebook, ma di investigare freddamente il lato oscuro del capitalismo del nuovo millennio.
Esemplare la parabola che lo sceneggiatore Aaron Sorkin costruisce a partire dal romanzo “Miliardari per caso” (“The accidental billionaires”) di Ben Mezrich: la prima scena, tipica dello scrittore nei dialoghi saturi di informazioni, sapidi nel contenuto e nelle allusioni, dice già tutto sul protagonista, a tavola con la (ex) fidanzata che lo rimprovera affermando “Passerai la vita a cercare di non essere un nerd ma sarà inutile, perché in realtà sei solo uno stronzo”. In un complesso gioco d’ambiguità nelle corde del cinico David Fincher (molto bravo a rendere dinamico un cinema di parole), tutta la pellicola è un tiro alla fune sulla verità o meno di questa affermazione, moltiplicando i punti di vista, rivelando spezzoni inediti (Zuckerberg e compagni ricordano in flashback, testimoniando di fronte agli avvocati), ampliando il punto focale sui “mali” della società moderna: se Zuckerberg è il Male, cosa sono gli esseri umani che lo circondano fra approfittatori, ipocriti, dinosauri di un passato di privilegi di casta, l’intero mondo che vive in internet? Tutti i personaggi, in realtà, possiedono un lato positivo e uno negativo: Zuckerberg è solo quello più sfuggente e, con chiusura circolare, sarà proprio un’altra donna perspicace a sentenziare “Non sei stronzo, fai solo di tutto per sembrarlo”. Sorkin, in pratica, senza imitarne le forme, riattualizza Rashomon e le sue diverse “verità”. La parte della pellicola che funziona meno è quella che non si limita a prendere la genesi di un sito web come spunto per parlare d’altro, ma sottolinea con troppa enfasi la portata rivoluzionaria dello stesso, il “come” funziona anziché il “perché” è stato creato: sono invece i rimandi, i significati nascosti a sedurre, quelli che denudano il paradosso di una società capitalistica che accoglie nel proprio empireo dei poppanti e li culla come Re, permettendogli di giocare con le proprie regole, indifferente ai loro tipici problemi da adolescenti. Fincher si diverte, anche, nel rendere composita questa riflessione introducendo figure diverse: il personaggio di Justin Timberlake, fondatore di Napster, con il gusto giovanile per la ribellione e l’anarchia contro le regole dei potenti assestati nell’economia; i tre tipici rappresentanti dell’alta borghesia di casa ad Harvard, che si comportano secondo le regole e rappresentano un sistema di privilegi piramidale che un social network come Facebook sovverte (perché in fondo, a quell’età, conta solo portarsi a letto le ragazze). Grande Jesse Eisenberg nella parte di un Zuckerberg che ha cercato di bloccare il film.