TRAMA
Un conto alla rovescia per le storie intrecciate di tre protagonisti, che cercano di restare a galla e superare le ventiquattro ore che cambieranno la loro vita. Una corsa mozzafiato contro il tempo, ai margini di una grande città.
RECENSIONI
Il cinema cosiddetto militante ha potenziali (solo potenziali!) limiti nell'ideologia che lo sottende, o meglio, nella necessità di (di)mostrare un assunto che l’autore reputa inconfutabile ipso facto. Oggi qualcuno parlerebbe forse della fallacia logica, chiamata cherry picking. Farebbe però un torto a quello che rimane dell’analisi sociale, che può non essere condivisa nelle strategie risolutive, di solito complesse, ma non può non esserlo nella valutazione di una disparità che sembra davvero larga un giorno, come le vicende del film di Juan Diego Botto; dal giorno del mondo emerso, quello delle banche e della burocrazia, alla notte – un’eterna notte, quella, ci piacerebbe pensarlo, di una distopia o di un fantasy, nulla di reale – degli sfrattati, degli ultimi, in una scala che considera valido solo il parametro del censo. O forse è il contrario, ma in sostanza cambia poco, come dimostra lo scorrere inarrestabile dei minuti sul quadrante dell’orologio dell’avvocato, Rafael (Luis Tosar): giorno e notte – giustizia sociale e apparato burocratico – figurano infatti come due elementi che non possono essere separati e che però, allo stesso tempo, non riescono a parlarsi o a capirsi (a parlare cioè una lingua condivisa). Del resto, basta leggere Max Weber, e mica solo lui, per capire cosa significhi la burocrazia e quanto sia ritenuta pressoché inscindibile dalle forme civili evolute, in modo da limitare i danni, esogeni o endogeni, delle autorità di tipo tradizionale o carismatico, poco controllabili e uniformabili alle procedure. La burocrazia non confonde il potere con chi lo esercita – rigorosa il primo, mutevole e sostituibile il secondo – e serve, o dovrebbe servire, a semplificare e livellare la vita comunitaria: non importa chi tu sia, la modalità di accesso a un atto – o quello che serve – è questa.
La patologia burocratica è però l'innamoramento per le regole. Allora, a partire da un dramma sul welfare state, o una versione più contemporanea dell’ormai smantellato e sbeffeggiato concetto, il regista si spinge fino a qualcosa che ricorda di più un horror/thriller del quotidiano, un vero e proprio conto alla rovescia, simile a quello presente in molti film dei generi succitati. Per assurdo e con un evidente uso iperbolico del paragone: l’attesa dello sfratto, che agita la vita del personaggio di Penelope Cruz, la quale telefona in filiale senza essere ascoltata, parla da muta (il figlioletto è nel frattempo diventato muto, un mutismo, si suppone, traumatico), perché muta è la sua condizione, rimanda alla modalità di attesa drammatica di un caposaldo dell’horror degli anni Duemila come The Ring. Dopo una settimana dalla visione della videocassetta, la tua sorte è segnata; per domani alle 7 in punto, l’apparato ha decretato che la tua sorte debba essere segnata. Trapped, sempre del 2002, gioca addirittura con le ventiquattro ore: tutto in un giorno. In un’accezione analoga, anche il percorso filmico dell’altra giovane madre, ricercata spasmodicamente da Rafa che per caso ha visto portare via la bambina da una volante della polizia, ricorda le dinamiche di un thriller a tinte foschissime, con una missing girl risucchiata chissà dove e chissà da chi (in questo caso, e fuor di metafora, dal lavoro, poco probabilmente contrattualizzato e regolare).
Quello a cui ci mette di fronte Juan Diego Botto è, nello stesso momento, un cinema di fantasmi (le storie principali si lambiscono di continuo, ma è come se non riuscissero a riconoscersi l’una con l’altra) e un cinema partigiano – chiaramente – perché si schiera, senza essere cerchiobottista, dalla parte dei deboli. Ma i deboli del cinema militante, quando quest’ultimo prova a non farsi bastare la retorica spicciola, non sono piante essiccate al sole mendace del più sfrenato capitalismo, quello che, tra l’altro, li immola in nome di un decreto salva-banche, di cui veniamo a conoscenza grazie a una radio accesa; non sono agnelli sacrificali piagnucolanti né sconfitti inermi e rassegnati. Non lo sono mai.
No, il cinema militante che prova a fare il suo dovere è un cinema che pulsa di vita fino all'ultimo attimo in cui questa è concessa: è un cinema che non si arrende. Possono arrendersi i protagonisti della storia che mette in scena/e, come avviene al personaggio dolente della terza madre (non in senso argentiano!) in Tutto in un giorno – questo nome, mamma, lampeggia sul telefono, di nuovo muto, del figlio – ma il racconto funge da propulsore di eternità per le battaglie che i personaggi stessi portano avanti.
Ed è così che l’opera prima di Botto – il titolo originale è il molto più efficace En los márgenes, ai margini, della società e della possibilità della macchina da presa di catturarne appieno l’esistenza/l’indifferenza subita – si inserisce nel solco tradizionale del cinema di Ken Loach o dei fratelli Dardenne, e prima ancora in quello glorioso del kitchen sink realism; l’osservazione qui non si esplica tuttavia nel pedinamento serrato di Rosetta e neppure nell’epopea di affermazione dell’identità – un’identità personale necessaria e una invece reale – di I, Daniel Blake. È magari qualcosa che ha a che fare con una sorta di identità collettiva, da recuperare nell’esserci per l’altro, che il regista ben rappresenta in un particolare che ho ritenuto significativo. Il film, possiamo dire, si apre e si chiude con il suono di una sveglia – la stessa – che tuttavia non significa più, non serve più allo scopo precipuo: svegliare qualcuno. Si trasforma piuttosto in una sorta di timer di un ordigno sociale. La sveglia suona dunque quando Azucena (Penelope Cruz) è già in piedi, è già sveglia. L’indicazione senza dubbio è utile a racchiudere i confini del giorno della narrazione, da cui il titolo nella nostra lingua, ma è interessante notare come tra i due orari intercorra una manciata di minuti. La prima sveglia suona infatti intorno alle 7.20, la seconda alle 7. Da un punto di vista simbolico, credo che si possa compiere l’azzardo di cogliere, in quel breve scarto temporale, l’eventualità di una storia parallela, una storia che segue un andamento inverso rispetto a quello in effetti esposto: come se quel racconto cominciasse alle 7 e terminasse già alle 7.20, con la resa rapida e indolore degli sfrattanti, accolti – e respinti – dal gruppo nutrito dei manifestanti, corsi in soccorso di Azucena e della sua famiglia, marito disilluso compreso. La solidarietà disinnesca la bomba e ribalta il senso profondo del tempo: dall’attesa di Davide, caparbia quanto si vuole, dell’inevitabile vittoria di Golia/Stato – tic tac tic tac – alla possibilità di riappropriarsi di quel che resta del giorno. Una sveglia che raffigura quindi, in questa accezione, soprattutto l’idea del progressivo raggiungimento di una consapevolezza sociale e personale nuova.
Intendiamoci, En los márgenes è un film pieno di sbavature, ingenuità drammatiche, cliché che in definitiva – ed è un vero peccato, visti i nobilissimi intenti – ne depotenziano la forza. Tra le ingenuità, per esempio, si può annoverare il cambiamento, davvero troppo repentino, del pur amabile personaggio di Raùl (Christian Checa), il cui processo di evoluzione, da ragazzino viziato a giovane uomo dalla spiccata sensibilità altruistica (il patrigno che diviene infine, a tutti gli effetti, padre), non può realisticamente – e neppure idealmente – esplicitarsi in un intervallo tanto breve.
Tuttavia è anche un lavoro che, per quanto possa apparire, e in parte sia, statico e persino pleonastico, riesce a costruire un discreto equilibrio tra la necessità di mostrare fino in fondo l’abiezione miope di certi meccanismi e il pudore nel fermarsi di fronte a una porta a vetri zigrinati, dietro la quale è ovvio che sia avvenuto un fatto irreparabile: in un’epoca parcellizzata e liquida di esibizionismi/sti e vuoti a perdere, non è comunque poca cosa.
Perché in fondo il cinema militante, quando prova – almeno prova – a fare il suo dovere, è un cinema che vuole cambiare il mondo, non limitarsi a raccontarlo. È un cinema che, mutuando il concetto espresso da Adorno in Conciliazione sforzata [1], «non enuncia giudizi; diventa giudizio nel suo complesso.»
È in fondo un cinema di sogni e adatto ai sognatori; il cinema di un eterno, polemico Jimmy Porter che ripete ancora, come faceva in Ricorda con rabbia: «Perché non facciamo un gioco? Facciamo finta che siamo esseri umani, e che siamo vivi sul serio. Solo per un po’. Cosa ne dite?»
[1] In Note per la letteratura 1943-1961, Torino, Einaudi, 1979, pp. 238-66, trad. it. a cura di E. De Angelis