TRAMA
Il viaggio alla ricerca di alcune buste paga perdute del neopensionato “Mammuth”…
RECENSIONI
I reietti che popolano le diegesi di Mammuth e i loro antidonquisciotteschi itinerari (non hanno la consapevolezza di lottare contro dragoni che scambiano per mulini a vento) costituiscono il non plus ultra del disincanto e dello spaesamento identitario. “Mammuth”, cui l’immenso Gérard Depardieu presta anima e corpo, è l’ultimo dei sopravvissuti di un mondo scomparso, il rappresentante di una categoria dimenticata, estremo Angelus novus destinato a essere spazzato via dal vento del “progresso”; un essere che, proprio in ragione di questa condizione di ultimo, accetterà di diventare l’ideale e taciturno portavoce dei perdenti della Storia, lasciandosi andare ad una deriva post-identitaria abnorme come la sua mole, cullato dai fantasmi del passato (la sanguinante e languida Isabelle Adjani) e ridestato dagli affetti del presente (la sempre titanica Yolande Moreau). Alla loro quarta collaborazione, Benoît Delépine, già responsabile di una delle trasmissioni televisive più politicamente scorrete di Canal +, Groland, e Gustave Kervern, attore e sceneggiatore, finalizzano una poetica formalmente coerente e cesellano un ulteriore microcosmo composito di figure ai margini. Come già in Aaltra (2004), Avida (2006) e Louise-Michel (2008), la coppia immerge lo spettatore in una realtà “abnorme”, una sorta di universo parallelo e di simulacro iperrealista, in cui affiorano in superficie i rimossi del sistema sociale contemporaneo ed esplodono, come funghi atomici che deformano la visione dell’orizzonte, le sue contraddizioni e aporie. Il loro è un cinema situazionista, narrativamente sfilacciato (ci si dimentica presto del simbolico oggetto-valore da recuperare, le buste paga del lavoratore modello), in grado di intrecciare cinismo (la visita all’ospizio) e romanticismo, assurdità e folle tenerezza (il lungo frammento a casa della nipote scultrice). Certo, alcuni episodi risultano gratuiti o troppo espliciti, ma tale innegabile discontinuità di scrittura e invenzione è riscattata complessivamente dalla costanza e dal coraggio con i quali Delépine e Kervern rispondono ad uno stile programmaticamente urticante, sgradevole e anti-estetico (inquadrature sghembe, sgranate o sovraesposte), una forma libera e liberatoria orgogliosamente anni ’70, démodé e in via d’estinzione proprio come il personaggio principale.
