Noir, Recensione

ROAD TO NOWHERE

Titolo OriginaleRoad to nowhere
NazioneUSA
Anno Produzione2010
Genere
Durata121'
Sceneggiatura
Fotografia
Scenografia

TRAMA

Mitch Haven gira un film su Velma Duran, amante suicida di un uomo politico. Forse.

RECENSIONI

Didascalicamente. Mitchell Haven ha un'ossessione: Velma Duran. Monte Hellman ha un'ossessione: il cinema. A cui torna, ventidue anni dopo Iguana. Scuola Corman, responsabile intorno agli anni 70 di opere low budget che sono pietre miliari del cinema indipendente (La sparatoria e Strada a doppia corsia, solo per citarne due, immensi), padrino in ogni senso di uno degli autori centrali del cinema contemporaneo (Quentin Tarantino), marginale per vocazione ed eccessiva lungimiranza: Hellman gira, all'apparenza, il proprio 8 e ½ [per dirlo in quei termini automatici che prevedono che un autore si consacri tale nel meta-riflettere sul (proprio) cinema]. Road to nowhere come debito saldato tardivamente da (e verso) un autore dimenticato. Eppure questa strada verso il nulla non è semplicamente un'analisi stantia, la messa in immagine di quelle filosofie sull'autofagia dell'immaginario che da Baudrillard giungono a Virilio, cinema-teorema inerme e glaciale. Road to nowhere è puro piacere (e annullamento) del metacinema, film su un film che confonde finzione e realtà, su una realtà falsificata confermata da un'opera di finzione, il vero nel falso, torsione su torsione: sostanzialmente la continua messa in abisso della verità, una pratica di spaesamento, un invito (dopo constatazione) al disorientamento. Lo sviluppo della narrazione si disperde nell'esponenziale, dislocante gioco dei livelli: non c'è sicurezza ontologica nel rappresentato, cause ed effetti deflagrano nella messa in scena (e in scena e in scena e in scena e in scena e in scena e in scena e in scena) di una logica che non ha fondamenta stabili: razionalmente rimangono i frammenti di una storia da ricomporre, sommersi da una superficie cinematografica che non ha più senso, ma è solo sensuale, flusso (non a caso) digitale, noir nel profondo, innervato da frammenti di Erice, Bergman, Sturges, percorso da traiettorie di infatuazioni pulsanti, desideri che divorano l'anima, aleggiare di misteri, donne che vissero molteplici volte, domande irrisolte, dubbi e un'unica certezza, l'assenza di vie di fuga. Lo zoom finale ribadisce: è solo un'immagine. Ma c'è solo l'immagine. Tra Black Dahlia e INLAND EMPIRE. Per chi scrive, un capolavoro.

Icona del sottobosco cinematografico americano, poco noto al grande pubblico, Monte Hellman si è sempre distinto per la determinazione con cui ha portato avanti progetti sperimentali e anti commerciali. È anche colui che ha in qualche modo scoperto il talento di Quentin Tarantino, producendogli nel 1992 l’opera d’esordio Le iene. Il suo ritorno al cinema in veste di regista, dopo ben ventidue anni, continua un percorso molto personale di ricerca. Nel suo lungometraggio, dal titolo emblematico (Road to Nowhere suona come una dichiarazione d’intenti), si intersecano differenti piani narrativi: c’è un fatto di cronaca che ispira la creatività di un regista, c’è quindi il film nel film, ma c’è anche la realtà del set che bussa alla porta. L’intreccio meta-cinematografico imbastito da Hellman vuole probabilmente indurre alla riflessione sul rapporto tra realtà e finzione, ma il regista newyorchese pare dimenticare che in questi vent’anni molti altri hanno affrontato il tema, con risultati di sicuro più perturbanti, David Lynch in primis, di cui Hellman pare inconsapevole emulo. Difficile quindi lasciarsi travolgere dalle derive previste dal film, dai continui rimbalzi tra realtà e sua rappresentazione, dagli echi noir, dalle svolte poliziesche, dalle citazioni non poi così sottili (quel Settimo sigillo di Ingmar Bergman poco prima della resa dei conti finale), dagli scarti temporali improvvisi, dalla patina intellettuale che copre il film di intenzioni prive di sbocchi. La sceneggiatura accumula quindi eventi, affianca dettagli, dissemina indizi, ma il fine unico pare quello di depistare e ciò che alla fine si evince (il ruolo della macchina da presa in grado di imprimere un’inevitabile soggettività, lo sguardo come porta sull’infinito) non illumina poi molto. Il viaggio nutre poco non tanto perché non si capisce dove porti, la mancanza di un approdo era l’obiettivo fin dal principio, quanto perché la commistione di immagini e parole non aggiunge nulla al tema meta-cinematografico affrontato e manca di quella fascinazione, necessaria data le ambizioni messe in campo, in grado di trasformare la visione in un’esperienza sensoriale capace di andare oltre il razionale. Per i più volenterosi, si racconta che una seconda visione offra spunti inaspettati e apra porte dell’inconscio.