Commedia, Recensione

UN SACCO BELLO

NazioneItalia
Anno Produzione1980
Genere
Durata99'

TRAMA

Ferragosto a Roma. Due amici non riescono a partire per le progettate vacanze in Polonia; un hippy ritrova il padre, deciso a convincerlo a tornare in famiglia; un ragazzo è attratto da una vispa turista spagnola.

RECENSIONI

Prima regia di Verdone (anche sceneggiatore con Leo Benvenuti e Piero De Bernardi; produce Sergio Leone) e una delle sue opere migliori, UN SACCO BELLO non si limita a riproporre i personaggi consacrati dal successo televisivo (il bullo, il figlio dei fiori, il pignolo, il bambinone) ma si pone come film compiuto e coerente, che pur non disdegnando il facile trionfo dell’abilità camaleontica del protagonista (la conversazione sui ‘giovani d’oggi’) non se ne accontenta. Quelle indossate dal regista/mattatore e dai suoi complici (tra cui spicca uno scatenato Mario Brega) sono maschere tragiche, coinvolte in situazioni tanto lugubri da risultare ridicole: la spensieratezza deborda nell’indifferenza, l’anticonformismo è un effimero equivoco (il turismo sessuale, diversivo del marito modello), il dialogo non esiste (per non parlare dell’amore, presente unicamente come persecuzione a distanza), la solitudine si pone come la vera legge esistenziale. Tutti temi destinati a tornare nelle opere seguenti, declinati per l’occasione senza ricorrere a stilemi pseudoalleniani o sfondi esotici: la macchina da presa descrive con efficace rozzezza una Roma svuotata e immobile, gabbia perfetta per questi animali disorientati e apatici, destinati a ricomparire, più minuziosamente e meno vivacemente tratteggiati, nel successivo BIANCO, ROSSO E VERDONE.

Il figlio dello storico del cinema Mario Verdone, dopo il successo ottenuto in televisione con la trasmissione “Non Stop” di Enzo Trapani, trasporta al cinema le sue fenomenali macchiette: grandi doti da trasformista (nell’episodio dell’hippy arriva ad impersonare quattro caratteri “contemporaneamente”), da comico che rende in caricatura certi tipi romani e da osservatore della realtà, Carlo Verdone non ha particolari attitudini per il mezzo cinematografico (montaggio, figuratività), si limita a filmare il “varietà”, eppure, centrato sul materiale umano, riesce a far pulsare sensazioni “altre” rispetto alla mera verve ironica, a rendere omogenei i tre episodi (raccordati, per altro, con una rete di incontri casuali) nell’inquadrarli in un apologo unico che è l’esatto contrario degli intenti buffi, avendo un retrogusto amaro, triste, tenero e persino poetico sulla solitudine in cui vivono due dei suoi personaggi: il misero e timido mammone solo sfiorato dalla dea bendata, il burino rockabilly che non ha amici e non vuole andare a Cracovia da solo. La funzione dell’hippy, invece, è quella di testimoniare una sorta di rivolta contro il Sistema, la città (dove scoppiano bombe del terrorismo), la figura paterna (ottimo Renato Scarpa e le sue sfuriate), la Chiesa (Verdone prete guercio), l’autorità violenta (Verdone professore fascista), l’alienazione (Verdone ragioniere logorroico), ma non manca nemmeno qui l’(auto)ironia (l’hippy è un borghesuccio tutto amore libero e parlata impastata-impostata), per un quadro finale poco confortante. Verdone rinverdisce la migliore commedia all’italiana (la struttura ad episodi, la citazione de Il Sorpasso nel primo episodio e la presenza come sceneggiatori di Benvenuti e De Bernardi), quella non solo ludica ma anche ferocemente critica (nume tutelare: Alberto Sordi): per questo è un gran bel film, un sacco bello.