CARTOLINA DA CANNES 75 – DELUDE LA NUOVA FAMIGLIA KORE-EDA

Probabilmente, la delusione più cocente di Cannes 2022. Dopo la Palma del 2018, che per una volta coronò effettivamente un percorso di maturazione autoriale durato anni, Kore-Eda si è messo in testa che la cifra riconoscibile cui era pervenuto il suo cinema (con al centro l’obbligata flessibilità delle strutture famigliari in un mondo ultraflessibile, guardata con sensibilità e senza pregiudizi) potesse essere esportabile a volontà. Ma i risultati sono fallimentari. Non è che il suo cinema non sia esportabile: in linea di principio lo è (e ne è la riprova il suo recente successo internazionale), ma siccome Shoplifters fu la punta dell’iceberg di un labor limae sui propri moduli narrativi e stilistici durato letteralmente decenni e con fortissimi rapporti con l’industria nazionale, dalla quale lo specifico sviluppo autoriale di Kore-Eda non può essere astratto, nel momento in cui Kore-Eda decide di esportare la propria formula di successo non è verosimile che il “trapianto” riesca in appena un paio d’anni.
Certo, l’esistenza di una buca tipo quella delle lettere, in Corea, dove le neomadri possono infilare i figli che non possono o non vogliono allevare loro stessi sembra fatto apposta per il regista di Like Father Like Son. Ma man mano che la trama si infittisce e lega tra loro una di tali neomadri, i benintenzionati intermediari del commercio privato di pargoli e le poliziotte alle loro calcagna, il disastro diventa sempre più evidente.

Il cinema coreano di cassetta è un cinema che si serve della modularità del cinema postmoderno, dove gli apporti dei singoli generi sono tasselli da comporre in una combinatoria ad alto grado di flessibilità, in modo particolarmente disinvolto ma anche, talvolta, notevolmente proficuo, nel senso che al di sotto di questa cinica maschera spettacolare può svilupparsi anche robustamente una logica narrativa e stilistica che non si confonde con quella maschera, per deviare invece verso direzioni anche parecchio audaci. Lo stesso Bong Joon-Ho (tanto per citare il nome più in vista di questa tendenza) si è mosso in questa maniera fin dall’inizio della sua carriera. Troppo abituato, invece, a lavorare in un contesto come quello giapponese, dove la scrittura si affida alla prassi classica di cancellazione delle proprie tracce in gradi, modi e forme anche oggi altamente idiosincratici nel panorama globale (basta rivedere il suo The Third Murder per ricordarci di questa tendenza fondamentalmente generalizzabile), Kore-Eda è rimasto impigliato, soccombendo, nei gangli di un’industria coreana troppo diversa dalla propria.
Incapace di maneggiare il doppio registro cui si accennava poc’anzi, ha appesantito la prima parte del suo film con troppe esche drammaturgiche, e con troppe concessioni all’obbligo dell’eterogeneità del genere: nei suoi film giapponesi, è impensabile che a un certo punto arrivi dal nulla, come accade qui, un bambino con un pallone che si attacca ai protagonisti con l’unico scopo di fornire riconoscibili iniezioni di commedia ogniqualvolta serva. Persino i “buoni sentimenti” si riducono a modalità tonali cui ricorrere quando serve per tenersi in equilibrio tra i generi, indipendentemente dalla logica del racconto. Quanto alla seconda parte, Kore-Eda ritarda il momento in cui le fila narrative vengono definitivamente tirate, percorrendo troppe piste parallele, e finendo così per tradire il nucleo tematico distintivo che ha cercato di esportare in un diverso contesto industriale, ovvero la famiglia giocoforza, ma RELATIVAMENTE flessibile. Nei suoi film precedenti, la flessibilità delle strutture famigliari andava di passo con l’emergere di una logica là dove pareva non ce ne fossero più: i legami non erano semplicemente spariti, ma riconfigurati secondo criteri al contempo conformi e difformi rispetto a quelli tradizionali. In Broker, invece, la famiglia è solamente flessibile: tutto si può scomporre e ricomporre a piacimento senza nessun attrito, nessuna frizione. Così facendo, però, Kore-Eda rinuncia all’idea di famiglia cui ha lungamente lavorato in Giappone: l’assoluta flessibilità di queste strutture famigliari diventa lo sterile analogo della assoluta flessibilità postmoderna che informa (la maschera spettacolare de) il cinema coreano di cassetta e da preconfezionata esportazione.